di Maurizio Karra

Le recenti polemiche politiche scaturite per il saluto romano reso dai militanti di destra nel corso della manifestazione-commemorazione in ricordo dei due giovani appartenenti al Fronte della Gioventù uccisi da un gruppo di estrema sinistra il 7 gennaio 1978 in via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano di Roma, al pari di tanti altri rigurgiti di violenza politica affioranti qua e là in molte parti d’Europa, concorrono a fornirci un ulteriore input per ricordare che fra pochi giorni ricorre il 79mo anniversario dell’ingresso delle truppe dell’Armata Rossa nel campo di concentramento di Auschwitz, nel sud della Polonia, uno dei tanti lager nei quali il nazismo internò, seviziò e uccise ebrei, rom e disabili ritenuti esseri inferiori; quel giorno, il 27 gennaio 1945, quando i cancelli di quell’angolo d’Europa si aprirono nel freddo gelido della stagione invernale, il mondo scoprì l’orrore perpetrato da Hitler e dalle SS per anni nel silenzio assordante anche di chi sapeva e non aveva mai parlato. 

Almeno una volta nella vita credo sia necessario che tutti vedano di persona, cioè che si rechino in quel luogo simbolo del degrado assoluto dell’umanità per capire ciò che per anni accadde di fronte all’indifferenza di tutti (o quasi) e il cui ricordo va invece alimentato affinché mai nessuno possa dimenticare, come in modo esemplare testimonia l’esempio vivente della senatrice Liliana Segre, superstite dell’Olocausto e voce indiscussa della Shoah. Personalmente io ho visitato in passato varie volte il campo di Auschwitz, onorando in silenzio la memoria di chi lì ha perso la vita, ebrei e non: uomini, donne, bambini, anziani, omosessuali, portatori di handicap, ecc. 

Dato che le generazioni più giovani non hanno mai conosciuto davvero cosa significa la guerra e il genocidio di un popolo (io sono stato fra l’altro anche in Bosnia, in Kosovo, ecc. a testimoniare gli orrori avvenuti ben più di recente da quelle parti), ma tutt’al più guardano sui social qualche frame di ciò che avviene altrove, magari a poche migliaia di chilometri da noi come fosse uno spettacolo qualunque, vi chiedo, da antropologi/ghe, di non girarvi dall’altra parte nemmeno nel guardare fuggevolmente le immagini che illustrano questo mio breve reportage e che anche ANPIA dovrebbe fare sue attraverso tutti i suoi canali interni ed esterni. Per non dimenticare. Perché fra i compiti degli antropologi e delle antropologhe c’è sicuramente anche (o soprattutto) quello di spiegare e difendere le diversità. A tutti i costi. 

È un dovere morale che mi sono imposto da decenni e che non smetterò mai di onorare attraverso i miei reportage, i miei articoli scientifici, i miei libri, i miei seminari; e prima di tutto gli atti piccoli e modesti della mia vita di tutti i giorni.

Qui di seguito potete leggere un mio reportage sull’ultima mia visita-pellegrinaggio svolta ad Auschwitz.

In prossimità della cittadina di Oświęcim, a un centinaio di chilometri dalla ben più nota Częstochowa, nella Slesia polacca, fu creato dai nazisti il famigerato campo di concentramento di Auschwitz in un terreno di circa sei ettari; fu proprio qui che la loro feroce follia si scatenò in modo “scientifico” causando la morte di oltre un milione di prigionieri (non solo ebrei ma anche rom, omosessuali e oppositori politici del nazismo), divenendo il simbolo stesso di terrore, genocidio e Olocausto. Originariamente nato attorno a una caserma dell’esercito polacco, il complesso venne usato sfruttando gli edifici abbandonati dopo lo scoppio della guerra, “ospitandovi” un numero sempre crescente di prigionieri polacchi; ma in seguito gli arresti di massa tra i cittadini ritenuti non conformi all’ideale della razza ariana indussero le SS a realizzarvi nel 1940 un vero campo di concentramento per i prigionieri politici, cui si aggiunsero dal 1942 gli ebrei europei, trasformando Auschwitz nel luogo del più feroce genocidio di massa mai compiuto dall’umanità.

Negli anni successivi, dato il sovraffollamento, il campo fu ampliato con la costruzione di Auschwitz II-Birkenau, situato a tre chilometri di distanza su un’estensione di circa centosettanta ettari, e poi di Auschwitz III-Monowitz, oltre che di una quarantina di campi minori, con una superficie complessiva di circa quaranta chilometri quadrati, in cui vennero rinchiusi oltre un milione di ebrei provenienti da tutti i Paesi d’Europa sotto il controllo dei nazisti, quindicimila prigionieri di guerra russi e diverse migliaia di prigionieri di altre nazionalità; oltre il 90% dei reclusi vi perse la vita a causa delle condizioni disumane in cui erano costretti. In questo insieme di statistiche dell’orrore si calcola che qui siano morte circa un milione e cinquecentomila persone, tra cui duecentotrentamila bambini.

Quando nel gennaio 1945 di fronte all’avanzata delle truppe sovietiche i nazisti provarono a distruggere le prove dei loro misfatti, il campo di Auschwitz rimase distrutto solo parzialmente; e così quando vi giunse l’Armata Rossa, i soldati russi si trovarono davanti uno spettacolo peggiore di qualunque girone dell’inferno dantesco, anche se erano rimaste solo poche migliaia di persone, quelle più deboli e non in grado di affrontare il trasferimento a cui vennero obbligati gli altri reclusi; di questi si salvarono appena settemilacinquecento persone, di cui cinquecentosessanta italiani (fra cui Liliana Segre), ritrovati tutti quasi in fin di vita.

Visitare il Memoriale Museo di Auschwitz-Birkenau anche a distanza di così tanto tempo è in ogni caso come ricevere un pugno allo stomaco e, anche se ci si sente preparati, l’orrore che attende al di là dei campi circondati dal filo spinato non è facile da quantificare; di fatto, è un pellegrinaggio sui luoghi in cui la natura umana ha dato il peggio di sé. Tra aprile e ottobre, giungendo al complesso tra le dieci e le quindici, è obbligatorio partecipare a visite guidate a pagamento che si susseguono in varie lingue, che richiedono circa quattro ore per la visita dei due campi di concentramento di Auschwitz e di Birkenau, collegati ogni mezz’ora da un bus navetta. 

Ancora oggi vi si penetra attraverso il cancello in ferro battuto sovrastato dalla cinica scritta “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi), oltre il quale si incontra una trentina di edifici in mattoni rossi, i famigerati blocchi trasformati oggi in sale espositive. Dopo essere scesi da estenuanti viaggi in treni sigillati, che duravano anche dieci giorni senza acqua né cibo, in partenza da varie parti d’Europa, durante i quali i più deboli morivano, i deportati dovevano schierarsi in due file: da una parte le donne e i bambini e dall’altra gli uomini. I medici separavano le persone forti e sane da quelle deboli e malate, che venivano avviate direttamente alle camere a gas, mentre coloro che erano ritenuti capaci di lavorare venivano immessi nel campo, dormendo in dormitori con letti a castello a tre piani in legno e brandine in cui dormivano fino a cinque persone, favorendo la trasmissione di malattie e infezioni, con un solo pasto al giorno e giornate lavorative che andavano dall’alba al tramonto. 

Oltre alle baracche, all’interno di quest’area avevano sede anche alcune aziende agricole e di allevamento, volute personalmente da Hitler, nelle quali i deportati venivano sfruttati come schiavi fino alla morte, che sopraggiungeva spesso in breve o per le impossibili condizioni di lavoro o per le malattie e la fame, o per le torture, compresi i criminali esperimenti medici portati avanti senza pietà dai medici nazisti, o come dicevamo attraverso le camere a gas dove venivano infilati a centinaia i prigionieri ritenuti inutili per subire una “doccia” a base del letale gas Zyklon B, composto da cianuro, cloro e azoto.

Questo immenso campo svolse un ruolo fondamentale nella cosiddetta “soluzione finale”, essendo il più grande ed efficiente centro di sterminio tedesco. Proprio per questo Auschwitz nell’immaginario collettivo è diventato emblema di lager e per questa ragione nel 1979 l’Unesco ha iscritto ciò che resta di questo luogo di dolore e di morte nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Ma in realtà il luogo vero e proprio di sterminio era nel vicino campo di Birkenau, costruito con la massima efficienza, che ospitava oltre trecento baracche adibite a prigioni e quattro gigantesche camere a gas con relativi forni crematori; nonostante sia stato in buona parte distrutto dai nazisti in ritirata, le torri di guardia e i campi recintati da filo spinato consentono di immaginare le condizioni limite delle decine di migliaia di prigionieri qui deportate.

A un chilometro dall’entrata attraverso una scalinata si raggiunge il monumento in memoria delle vittime, in cui si insegue in venti lingue il testo che così recita: «Che questo luogo dove i nazisti hanno assassinato un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, in maggioranza ebrei provenienti da diversi Paesi d’Europa, sia per sempre per l’Umanità un grido di disperazione e un monito».

In effetti vedere con i propri occhi, pur a distanza di decenni, l’orrore delle camere a gas, la spietata esposizione di miliardi di capelli femminili strappati alle prigioniere o la cruda carrellata di scarpe e di indumenti che sembrano ancora in attesa di essere nuovamente usati fa salire un groppo in gola; questi effetti personali venivano depositati in un magazzino prima dell’inventario, che veniva chiamato “Canada” in riferimento al ricco Paese nordamericano, ed erano oggetto di cinici traffici tra i kapò, i prigionieri elevati al rango di sorveglianti, e alcuni prigionieri. I deportati polacchi erano, invece, intellettuali e sacerdoti, mentre nelle celle delle prigioni è stato recentemente reso omaggio da Papa Francesco a quella in cui è morto Massimiliano Kolbe, poi santificato, che offrì la sua vita in cambio di quella di un altro prigioniero. 

Sfilano tristemente anche le foto degli internati qui classificati e morti fino al 1943, anno in cui cominciarono a essere identificati con un numero tatuato sul braccio: donne, uomini e bambini dallo sguardo spento e dal viso scheletrico che sembrano urlare ancora oggi il loro terrore e la loro disperazione, vittime innocenti sacrificate al delirio della presunta superiorità etnica tedesca; l’orrore, il dolore, la pietà e anche l’incredulità (se non il negazionismo di alcuni) si fondono allora in un sentimento solo che purtroppo nulla può ancora oggi di fronte ai tanti, troppi inferni che si sono ripetuti dopo il 1945 o che continuano ancora a essere replicati ancora oggi, dai Balcani alle rive del Congo, per non parlare della Palestina o dei villaggi dell’Africa centrale, dovunque la “pulizia etnica” è ancora ritenuta una terribile soluzione finale, spesso alimentata da signori della guerra prezzolati da potenze straniere che giocano le loro guerre per procura. 

Quello che rimane dentro dopo questo pellegrinaggio, oltre alla umana pietà per queste vittime innocenti, è l’orrore per la perfidia che la natura umana è in grado di toccare. Ciononostante la cieca speranza di lasciare ai nostri figli un mondo migliore non deve abbandonarci mai ed è una promessa che sul cancello di Auschwitz ci sembra sacro rinnovare, per noi e per le generazioni future, affinché nessuno mai dimentichi.

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