Di Nicoletta Landi e Valentina Rizzo

“Non di dinosauri, non di stelle,

ma…

di cibo e turismo”

Francesco Bravin presidente di Antropolis e socio ANPIA ci racconta la sua esperienza professionale oltre lo stereotipo e il malinteso sull’antropologo.    

Quando hai scoperto l’esistenza dell’antropologia? 

Come ogni bambino, alle elementari ero un appassionato di dinosauri. Alle medie passai dalla paleontologia alla paleoantropologia, ma il vero passaggio all’antropologia culturale avvenne al liceo classico, quando mi appassionai alle interpretazioni antropologiche dei miti greci. Lessi i Prolegomeni allo studio della mitologia di Kérényi e poi Il ramo d’oro di Frazer e fu subito amore.

La tua famiglia ha cercato di farti cambiare idea? Avrebbero preferito iniziassi una carriera da gangster piuttosto?

Quasi: probabilmente speravano facessi l’avvocato, vista la logorrea che mi contraddistingue. Comunque non hanno mai cercato di dissuadermi, anche perché l’alternativa era che studiassi Linguistica (la mia altra bruciante passione), che dal punto di vista lavorativo offre un panorama ancor più desolato.

Quando hai iniziato a interessarti e/o ad occuparti di uno specifico ambito di ricerca/lavoro?

Non riesco a limitarmi a un unico specifico ambito. Quando mi interesso di qualcosa lo approfondisco compulsivamente, che si tratti della filogenesi dei mammiferi o della teoria delle glottidali. Come antropologo al momento mi occupo principalmente di cibo e turismo: il cibo è stato da sempre una parte fondamentale della mia vita, essendo figlio di un ristoratore e di una tecnologa alimentare (e giornalista che si occupa del settore agroalimentare); quanto al turismo, iniziai ad interessarmene per la tesi della magistrale, su Monterosso al Mare: all’inizio volevo studiare certe tradizioni popolari di Monterosso recuperate e inventate, ma il turismo si rivelò essere un vero e proprio “fatto sociale totale”, che non poteva essere ignorato. In seguito tornai sullo stesso campo per il dottorato e decisi di ottenere uno sguardo dall’interno del fenomeno turistico, motivo per cui conseguii il patentino di accompagnatore turistico. Avevo già lavorato con i turisti in Kenya e alle Seychelles e l’esperienza mi era piaciuta, così decisi di tentare anche quella strada. Oggi fra i lavori che faccio c’è anche l’accompagnatore e devo dire che un background antropologico fa la differenza. 

Come reagiscono le persone – comprese quelle con cui eventualmente lavori – al tuo essere antropologo?

Dipende dalle persone. Gli interlocutori sul campo in generale non hanno idea di cosa sia un antropologo e finiscono per interpretarlo come “una specie di giornalista”, scambiando la ricerca sul campo per un reportage. Hanno contribuito alla confusione due fatti: il primo è che le interviste fossero un mezzo primario durante il campo etnografico; il secondo è che a Monterosso tutti sanno che sono figlio di una giornalista, figlia a sua volta di un altro giornalista. Quando lavoro con i turisti, buona parte di loro ha una idea piuttosto vaga di cosa sia l’antropologia. Nel posto dove insegno, invece, un istituto privato che si occupa di preparare gli studenti per gli esami, sia delle scuole superiori, sia universitari, non hanno ben chiara la distinzione fra le varie scienze umane e sociali.

In che modo le tue competenze antropologiche costituiscono una risorsa, nel tuo lavoro?

Come avrete capito, faccio tre lavori diversi. Come formatore/insegnante la mia competenza nelle scienze sociali in generale e in antropologia in particolare è fondamentale. Come accompagnatore turistico non lo è, ma aggiunge comunque un valore aggiunto inestimabile quando offro ai turisti delle interpretazioni approfondite di fenomeni culturali e sociali. Infine, il terzo lavoro è nel ristorante di mio padre: in quell’ambito l’antropologia non sembra svolgere un ruolo particolare, ma è innegabile che mi spinga a uno sguardo diverso sulle dinamiche lavorative, soprattutto visto che mi occupo di cibo.

E, invece, un ostacolo?

Un ostacolo non direi. Talvolta, come accennavo prima, ci possono essere da parte della controparte delle aspettative non realistiche, soprattutto nell’insegnamento. In passato ho lavorato anche come esperto di risorse umane e all’inizio non è stato facile trovare lavoro, perché le aziende cercando soprattutto psicologi per quella posizione; in altri casi invece non capiscono che differenza ci sia fra un sociologo e un antropologo (e quando lo capiscono tendono a preferire i sociologi).

Come ti vedi tra dieci anni? E no, ci dispiace, non possiamo offrirti da bere per consolarti.

In genere preferisco focalizzarmi sul presente, ma diciamo che fra dieci anni mi vedo sempre in viaggio e impegnato in tanti progetti diversi. Con l’associazione che ho fondato, Antropolis, stiamo organizzando dei corsi di formazione e delle piccole conferenze interdisciplinari che poi daranno vita a delle pubblicazioni: mi piacerebbe che fra dieci anni questa realtà fosse consolidata e funzionasse a pieno regime.

Però se venite a Milano a trovarmi vi offro volentieri da bere io!

Grazie!

Grazie a voi!!!

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