Ingresso di palazzina con balcone, cortile con fiori

Etnografie di quartiere: storie di pudore, di pensieri sgretolati, di vita autonoma degli oggetti /1

Miriam Castaldo

Ingresso di palazzina con balcone, cortile con fiori

Intorno ai miei piedi

Da quando il Covid-19 si è manifestato in tutta la sua potenza nelle vite di tutte e tutti noi, sebbene attraverso forme e processi del tutto eterogenei e con ricadute altrettanto diverse, ecco: il pensiero, il mio pensiero, sembrava essersi intorpidito, così come le mie attività sociali.

Il lavoro è stato rapidamente sospeso, ma con la “fortunata” possibilità della cosiddetta modalità smart (che per lo più definisce chi ha garantito il salario e chi no, così come la protezione di alcuni e il rischio di altri), modalità che ha sancito anche il confinamento a casa con mio marito che, come me, ha delle garanzie contrattuali… insomma una detenzione dorata, mi sono ripetuta più volte. Ed era questa detenzione che sentivo di dover ottimizzare, pur nello spaesamento dei sentimenti, schiacciata da un senso di perdita e di assenza.

A chi mi continuava a chiamare in causa: “ma stai scrivendo qualcosa? Ma stai/state facendo osservazioni voi antropologi in questo tempo eccezionale che stiamo vivendo? Ehi, ma tu sei antropologa, ma non dici nulla?” Ecco io rispondevo: “no, io non sono in grado in questo momento, sto solo cercando di respirare e capire cosa sta succedendo intorno a me, ma intorno ai miei piedi, non oltre le mie ciabatte, poi forse chissà riuscirò a guardare un po’ oltre, ma non so, ora davvero non so”. Era il 6 marzo quando raccontavo di questo sentire a delle care colleghe che, chi più chi meno, condividevano con me questo senso di disorganizzazione del pensiero o l’emersione di sentimenti come la rabbia, quando già questa sanamente riusciva a essere rappresentata.

Reinventare il quotidiano tra giardini e balconi

Poi un giorno, quando a Roma si è avuta voglia di cantare dai balconi, noi che godiamo di un giardinetto che ci ha sempre garantito terra e cielo, ci siamo incontrati con i nostri quattro vicini (siamo sei adulti più due baldi adolescenti) con le dovute nuove convenzioni relazionali e, chitarre alla mano, abbiamo intonato dei brani rock, punk e via così. Ecco, noi che non siamo neanche un numero sufficiente per considerarci un condominio, si vive bene insieme, ci si scambia sorrisi, due chiacchiere ogni tanto, ma non di più. Tra una stonatura e un’altra abbiamo iniziato a condividere la preoccupazione di una progettazione futura, volavano “chissà”, “forse” e così si è creato un gruppo su Whatsapp, dopo circa quindici anni che vivo qui. E con una vicina mi sono scambiata anche dei contatti su dei social network, dicendoci stupite che, in effetti, non ci fossimo mai così tanto “incontrate”.

Con il trascorrere delle settimane, dalla mia casetta-non-condominio ho però iniziato ad ascoltare delle chiacchiere interessanti tra i vicini del palazzo di fronte al mio, soprattutto donne. Si parlavano con voce sostenuta dalle finestre o dai balconi, si raccontavano di difficoltà economiche, di lavori persi, di rischi cui loro o i propri familiari erano stati, o erano ancora, sottoposti nei reciproci impieghi; condividevano – sgretolando un qualsivoglia pudore – preoccupazioni e intimità come non avevo mai sentito, come non mi ero mai resa conto o, forse, come non era mai stato fatto. Ma si conoscevano prima di questo confinamento? Si erano mai scambiate e scambiati stralci di vita così personale, seppur attraverso altre prossimità fisiche?

La vita sociale di un’intervista, prima parte.

Senza alcuna pretesa analitica, ho elaborato una breve intervista semi-strutturata di nove item, anonima- ma in cui volevo perlomeno raccogliere età, genere e livello di istruzione – il cui obiettivo era capire come e se nella mia casetta e nel palazzo di fronte si stessero trasformando le relazioni tra vicini . Ho deciso allora di inviarla a due insiemi di persone distinti: uno è il gruppo collettivo dei miei cinque vicini adulti; l’altro sono due contatti individuali che ho (o meglio che ha mio marito e di cui mi sono appropriata) nel palazzo di fronte, quello cui ero interessata. Ho mandato a tutti loro questo incipit, cercando di essere molto informale, semplice e diretta:

Buongiorno,
sono una tua vicina di casa (XXX, qui accanto al tuo palazzo) mi chiamo Miriam e di lavoro faccio l’antropologa. È un lavoro un po’ strano, in sintesi potrei dire che mi occupo di ricerca sociale nell’ambito della salute e della malattia. In questi tempi molto faticosi per tutti noi che ci vedono costretti a casa, vorrei sottoporvi una brevissima intervista per capire come si stanno modificando le relazioni sociali nei nostri piccoli mondi di vicini di casa. Cosa farò con i risultati? Dipende da quante interviste riesco a raccogliere, se il numero è rilevante potrei scrivere un articolo e pubblicarlo, ovviamente citando il nostro quartiere e i testi che mi arriveranno.

Le risposte me le puoi dare scritte e lasciarmele nella cassetta della posta (XXX); oppure puoi inviarmi un messaggio su Whatsapp al numero XXX, anche un vocale va bene, come ti senti più a tuo agio.
Questa breve intervista è totalmente anonima, ho però bisogno di alcune informazioni per fare poi un’analisi dei dati più puntuale:
Le X corrispondono chiaramente ai miei riferimenti che non inserirò qui, visto che già tutto il mio quartiere, ma non solo, ne è a conoscenza. Nei giorni seguenti al primo – e unico- invio dell’intervista via Whatsapp, ho iniziato a ricevere numerose risposte provenienti anche dai quartieri vicini; me ne sono accorta perché il numero di uomini che rispondevano iniziava a essere superiore al numero di abitanti del palazzo di fronte. Allora ho chiesto delucidazioni ai due contatti individuali, che chiameremo Luis e Luigi (in tenero ricordo di due importanti perdite di questo feroce periodo), e mi hanno detto che in effetti l’avevano inviata anche a dei loro amici, in giro per la città. Con una sua relativa autonomia, la vita sociale di questa breve intervista, direbbe Appadurai (1986), aveva avuto inizio.

(segue)

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