“Non di dinosauri, non di stelle,
ma…
sessualità, salute e adolescenti”

 

Nicoletta Landi, socia ANPIA racconta la sua esperienza di antropologa nei servizi socio-sanitari. Il desiderio, i pregiudizi e l’educazione nel mondo della sessualità.

 

Quando hai scoperto l’esistenza dell’antropologia? 

Direi alle scuole superiori, per lo più supportata da mia madre che mi ha parlato per prima di questa disciplina che sembrava rispondere alle mie curiosità riguardanti quelle che oggi definiremmo le diversità socio-culturali, religiose e identitarie in generale.

La tua famiglia ha cercato di farti cambiare idea? Avrebbero preferito iniziassi una carriera da gangster piuttosto?

Probabilmente parte della mia famiglia avrebbe preferito un percorso di studio più comprensibile e vicino alle aspettative del contesto socio-culturale in cui sono cresciuta. Tutti speravano in una carriera da insegnante o qualcosa di inerente con le lingue straniere o la comunicazione ma, allo stesso tempo, mi hanno lasciata libera di studiare quello che mi interessava di più. Da parte della mia famiglie non mi sono mai mancate fiducia e supporto, e di questo sono loro molto grata. Certo, oggi sperano ancora in un contratto a tempo indeterminato e/o in un nipote, ma stanno iniziando a capirmi e ad apprezzarmi per quello che sono e che faccio.

Quando hai iniziato a interessarti e/o ad occuparti di uno specifico ambito di ricerca/lavoro?

Ho iniziato a interessarmi di sessualità durante la laurea specialistica a Bologna, quando ho scoperto e approfondito tutta quella letteratura che si è occupata e si occupa di genere, corpo, perfomatività. Circa dieci anni fa, quando mi sono laureata, gli studi antropologici sul sesso però, erano abbastanza scarsi. Ho deciso tuttavia di lanciarmi e di seguire la pancia svolgendo la mia prima indagine in quest’ambito. Mi sono occupata di BDSM (Bondage, Disciplina, Sado-masochismo) e da allora non ho più smesso di lavorare – con passione e dedizione – su temi riguardanti corpo, sessualità, genere, educazione e, più recentemente, servizi pubblici.

Come reagiscono le persone – comprese quelle con cui eventualmente lavori – al tuo essere antropologa?

Desta curiosità la maggior parte delle volte, anche se molti – dentro e fuori dal mio ambito di lavoro – non sanno bene cosa faccia e/o di cosa si occupi un’antropologa. Un’antropologa che si occupa di sesso, poi! Spesso vengo considerata come un’enciclopedia di “usi e costumi sessuali” oppure come uno strano ibrido professionale: troppo “ricercatrice” all’interno dei servizi e troppo “operatrice” in Università. Resta una costante poi il rivolgersi a me per questioni “culturali”, ma credo sia un atteggiamento – basato su un diffuso culturalismo – che gran parte degli antropologi e delle antropologhe riscontrino. Alla domanda “cosa pensano le ragazze marocchine della contraccezione?” il mio compito è di rispondere facendo riflettere i miei interlocutori come le sessualità di ciascuno/a siano influenzate sia da suggestioni contestuali in senso ampio sia da specifiche traiettorie individuali e che un approccio “culturalista” rischia di ridurre la complessità di tali problematiche. Come educatrice e collaboratrice dei servizi pubblici, inoltre, cerco sempre di tradurre questo tipo di riflessioni in spunti pratici, operativi, utili.

Poi ci sono i ragazzini – quelli cui rivolgo percorsi di educazione alla sessualità – che mi chiedono se io sia una o meno pornostar.. ma credo che questa sia un’altra storia.


In che modo le tue competenze antropologiche costituiscono una risorsa, nel tuo lavoro?

Credo siano fondamentali come strumento analitico-decostruttivo prima di tutto. Mi aiutano a comprendere, decodificare gli assunti e i sottointesi – nel mio caso – delle pratiche e delle politiche educative e socio-sanitarie proprie dell’educazione alla sessualità e della promozione della salute. Allo stesso tempo, mi forniscono strumenti operativi per comprendere, valorizzare e prendere in carico la pluralità e la complessità delle identità e delle esperienze erotico-relazionali di giovani e adulti. Inoltre, studiare antropologia – insieme alle esperienze fatte nella vita e nel lavoro – mi ha reso una persona non giudicante: tratto fondamentale per chi si occupa di sessualità e educazione.

E, invece, un ostacolo?

Forse la scarsa valorizzazione della mia professionalità all’interno di servizi pubblici (e non solo) ancora tradizionalmente legati a percorsi professionali diversi dal nostro. Gli antropologi e le antropologhe che lavorano – più o meno stabilmente – all’interno dei servizi sono ancora pochi/e: ci sono per lo più psicologhe, educatori, psichiatri e tutti/e i/le professionisti/e di area sanitaria. Personalmente credo che sia nell’interdisciplinarietà che si riescano a sperimentare modalità sempre più inclusive ed efficaci attraverso cui comprendere e dare valore alle sessualità di ciascuno/a.

Come ti vedi tra dieci anni? 

Tra dieci anni mi vedo ancora appassionata del mio lavoro, ma sempre in bilico tra l’entusiasmo e la paura di una precarietà stritolante. Spero di abituarmici sempre di più e di riuscire a farne uno stimolo per continuare a portare avanti – bene – quello che so e che amo fare. Bisogna pur essere un po’ fuori di testa per infilare preservativi su dildo parlando di amore, salute e desiderio davanti a una classe di tredicenni ormonati/e, no? Quindi, spero di essere sulla strada giusta e di mantenere quel pizzico d’inquietudine e follia che mi caratterizza.

Grazie!

 

Seguitela su: http://www.nicolettalandi.it

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