Messico e rider: lavorare senza tutele ai tempi del covid-19

di Caterina Morbiato

Foto di Stefano Morrone 

In Messico le imprese del food delivery trovano un terreno fertile per il tipo di lavoro che offrono: iperflessibile, di facile accesso, sottopagato. Inoltre, la forte atomizzazione che caratterizza l’attività di rider  trova  un contesto ideale nello spazio precarizzato della metropoli: l’estensione  urbana rende difficile l’aggregazione tra lavoratori, contribuisce all’individualismo  lavorativo e indirettamente fomenta il mantra delle imprese: “sii il capo di te stesso”. 

La storia del sindacalismo messicano è un altro elemento che influisce nel successo di questa nuova forma del lavoro. A causa di una lunga tradizione di sindacati charros —subalterni alle imprese e in molti casi a interessi di parte che danneggiano i lavoratori— esiste una forte diffidenza verso forme organizzative che simpatizzano con il sindacalismo. 

Questo fa sì che i collettivi messicani siano più recenti rispetto a quelli di altri paesi della regione —come succede per esempio in Argentina dove è nato il primo sindacato di rider: la Asociación de Personal de Plataformas (APP)— e optino per strategie che non si oppongono frontalmente alle imprese. Pur non insistendo sulla dimensione lavorativa, i collettivi messicani mettono in atto forme di mutualismo e alleanza con altri collettivi, come quelli dei ciclisti, per affermare il loro valore in quanto soggettività che costruisce lo spazio urbano.

A Caccia di mascherine

Qualche  giorno fa, Mauricio Fluss è andato a caccia di mascherine. Era notte fonda e aveva completato una parte dell’ordine che un cliente aveva fatto attraverso l’applicazione di food delivery “Rappi”: tonno in scatola, maionese, carta igienica. È stato facile, ha trovato un SevenEleven (catena di negozi aperti 24 ore, ndr) e si è rifornito.
Mancava però un’altra parte dell’ordine: cinque mascherine. E cosí ha pedalato per otto chilometri alla ricerca di una farmacia aperta e, dopo averla trovata, ha pedalato per altri quattro chilometri per trovarne una che non solo fosse aperta ma che avesse anche delle mascherine. Un’ora e mezza dopo, vittorioso, aveva completato il suo ordine.

Ha guadagnato 33 pesos (1,25 euro).

Precarietà lavorativa alle stelle

Con l’avanzare della pandemia, gli ordini sono diventati più lenti e più difficili da completare, come quando si tratta di ottenere mascherine e guanti. E anche più pesanti, dato che i rider che fanno le consegne in bici possono trasportare fino a 25 kg tra frutta, verdura e prodotti vari del supermercato. D’altra parte, non portare a termine un ordine o rifiutarlo non è un’opzione che tutti possono permettersi. Il sistema di punteggio e valutazione delle applicazioni non è andato in quarantena: i rider vengono valutati dai clienti e una scelta “sbagliata”, come interrompere un ordine perché lo sforzo e il tempo necessari non valgono i pochi pesos di profitto, può tradursi in ritorsioni automatiche. Se il tuo punteggio diminuisce, l’algoritmo ne prende nota e prepara il  castigo: meno clienti per te. Se hai acquistato la maggior parte della merce dell’ordine ma te lo annullano perché ci hai messo troppo tempo a consegnarlo, dovrai pagare di tasca tua.

Nel mezzo della pandemia, l’abituale precarietà lavorativa sale alle stelle.

Quindi, ti proteggi come puoi: decidi di lavorare per Didi Food, Rappi, UberEATS. Mauricio è ora collegato a ognuna di queste tre applicazioni: vuole provare a guadagnare quanto guadagnava prima. Anche se non si fida degli aiuti che potrebbero dargli le imprese nel caso si contagi di Covid-19, lavorare come rider è la sua unica fonte di reddito e non ha intenzione di smettere.
“Devi continuare a lavorare perché o ti uccide il virus o ti uccide la fame, questo è il problema”, dice scrollando le spalle.
Dallo stato di Sinaloa, nel nord del Messico, il portavoce del collettivo Ni Un Repartidor Menos Culiacán, Gerardo Antonio Valenzuela Lizarraga, gli fa eco:

“Se non lavoriamo, non mangiamo. Viviamo alla giornata”, commenta in un’intervista telefonica.
Gerardo spiega che, ad oggi, le applicazioni attive nella città di Culiacán (la capitale dello stato di Sinaloa, ndr) non hanno fornito alcun tipo di protezione ai rider. Per questa ragione, lui e i suoi compagni di collettivo vogliono chiedere aiuto ad istituzioni come la Croce Rossa o la Protezione Civile. L’altra opzione sarebbe comprare glicerina e alcool per preparare gel antibatterico e distribuirlo ai rider che lavorano in città; se la spesa dovesse diventare eccessiva, potrebbero organizzare una colletta insieme ai loro colleghi.
“Normalmente quando chiediamo una cooperazione è per qualcuno che ha avuto un incidente: gli diamo il denaro raccolto così può sopravvivere durante il periodo di degenza —osserva—. Ora sarebbe bene unirsi vista l’emergenza. L’iniziativa andrebbe a beneficio dei rider, ma anche dei clienti: proteggendo noi, proteggiamo anche loro”.

Azioni collettive

Sono le tre e mezza del pomeriggio di mercoledì 9 aprile. Mauricio e altri membri dei collettivi Ni Un Repartidor Menos e Deliverlibres da poco più di un’ora sono arrivati al Parco della Bombilla, nel sud di Città del Messico. Hanno cercato riparo all’ombra di alcuni alberi a pochi metri dal monumento ad Álvaro Obregón; da qui ricevono i rider che arrivano.
Di fronte all’assalto della pandemia, i collettivi di rider fanno quello che sono abituati a fare in situazioni di emergenza: praticare un mutuo aiuto con le poche risorse disponibili.Una settimana fa hanno ottenuto una donazione di 30 litri di gel antibatterico dall’Unità di Soccorso e Urgenze Mediche (ERUM) della Secretaría de Seguridad Ciudadana (agenzia del governo incaricata della supervisione della sicurezza pubblica) e hanno iniziato la distribuzione in vari punti della città dove sanno che transitano i rider.
Oggi pomeriggio si occupano anche di disinfettare gli zaini con prodotti sanitari che hanno donato i membri dell’organizzazione di cicloattivisti División del Sur: “Sono biologici e resistono sulle superfici per 24 ore”, assicurano.
Disinfetta, igienizza, pulisci. Insieme al virus, in Messico come altrove, si diffonde anche la paura.
“Ora che siamo senza protezioni ed esposti al virus, le applicazioni si sono dimenticate di noi —afferma Mauricio—. Per fortuna però ci stiamo organizzando: se nessuno lo fa, chi meglio di noi?”
Disinfetta, igienizza, pulisci. Ti proteggi come puoi.

Cosa succede se mi ammalo?

Finora le applicazioni hanno reagito diversamente all’emergenza. Al di là dei messaggi sulle misure di igiene che inviano costantemente ai rider, non tutte hanno comunicato chiaramente quali misure verranno applicate durante la crisi sanitaria.
Alcune, come Didi Food, distribuiscono kit di protezione sanitaria —una bottiglietta di gel antibatterico, 50 paia di guanti e 10 mascherine— ai loro rider, che devono ritirarli negli uffici dell’azienda.
Altre, come Rappi, sono evasive. Attraverso un comunicato stampa rilasciato il 23 marzo, l’impresa ha annunciato un investimento in “apparecchiature e processi per garantire che i rider rispettino tutti i protocolli di sicurezza durante il trasporto e al momento della consegna degli ordini, distribuendo oltre 200mila gel antibatterici e mascherine come parte delle misure”. L’impresa, inoltre, annuncia di star finanziando campagne di educazione e prevenzione per garantire la fiducia degli utenti in merito alle misure di controllo e igiene.
Abbiamo cercato di contattare l’azienda Rappi per sapere quando e come inizierà la distribuzione di gel antibatterici, nonché i metodi per diffondere queste campagne di prevenzione. Al momento ancora non abbiamo ottenuto  risposta.
C’è però un’incertezza ancora più grande. Diverse applicazioni —Rappi, Didi, UberEATS— hanno annunciato un aiuto economico nel caso in cui i rider dimostrino, con un certificato medico, di essere positivi al Covid-19. Le misure annunciate parlano di un fondo di emergenza, di cui però non si stabilisce né l’importo né la modalità di erogazione.
Inoltre, non tutti gli istituti di sanità pubblica stanno conducendo test e il loro costo presso strutture  private è di circa 3.500 pesos.
“Didi coprirà fino a un mese di guadagno, ma solo parzialmente. Se ti ammali e lo dimostri, Rappi e Uber fanno una stima di quello  che guadagni normalmente e te ne assicurano solo una certa percentuale”, spiega Mauricio cercando  di fare chiarezza su un procedimento che fin dall’inizio è stato comunicato con ambiguità.
“Ho contattato il centralino di Rappi e mi hanno detto che dovevo isolarmi e che non potevo più uscire a fare le consegne”, spiega Maximiliano, un giovane rider che è in isolamento da più di una settimana, con quelli che sembrano essere i sintomi del coronavirus.
“Hanno detto che mi monitoreranno e aspetteranno di sapere come si sviluppa la mia situazione, ma quando ho chiamato non hanno menzionato nulla del fondo di sostegno economico: l’ho scoperto da solo perché ho letto i metodi di prevenzione che ha comunicato Rappi a noi rider”.

Eroi usa e getta

Come già accaduto in paesi come l’Italia, gli Stati Uniti o l’Argentina, i servizi di consegna a domicilio sono diventati un settore essenziale durante la pandemia. Da un lato, questo può rappresentare un vantaggio per quelle persone che non possono uscire di casa e riescono così ad ottenere provviste o medicine. D’altra parte, non tutto ciò che viene ordinato tramite le applicazioni rappresenta un bene di prima necessità.
Dall’Italia, diversi gruppi di rider sostengono con determinazione che una pizza o un hamburger consegnati a domicilio non sono l’equivalente di un servizio indispensabile, non sono un diritto. È aberrante che i rider debbano rischiare la propria salute, oltre che guadagnare una miseria.
Nel paese mediterraneo i rider hanno protestato per più di un mese attraverso i social network con comunicati congiunti e campagne virtuali di sensibilizzazione  in cui ripetono: “non abbiamo bisogno di eroi, vogliamo uno stipendio di quarantena”, “sicurezza per tutti” e “anche noi vogliamo il diritto alla quarantena”.
Diversi gruppi come Deliverance Milano, Riders Union Bologna, Riders per Napoli-Pirate Union, non solo denunciano l’inadempienza delle applicazioni —che per legge dovrebbero fornire i dispositivi di protezione ai rider— ma chiedono anche che venga garantito un contributo economico durante il periodo di emergenza, per non doversi trovare a scegliere se rischiare la vita lavorando o smettere di lavorare restando senza soldi per vivere.
Accusano il governo di considerarli come eroi usa e getta: figure utili per alimentare una retorica nazionalista romanticizzata, che inneggia alla solidarietà nazionale mentre  dimentica le disuguaglianze che attraversano il tessuto socio-economico del paese.
Secondo Marco Marrone,  ricercatore del Centro per le Discipline Umanistiche e il Cambiamento Sociale dell’Università Cà Foscari di Venezia , il governo italiano ha affrontato la crisi attraverso la costruzione di un nuovo regime di lavoro basato sullo sfruttamento dei lavoratori più deboli. Questi includono, ad esempio, i dipendenti del settore della logistica e dell’agricoltura, dove prevale il lavoro migrante.
“Quello che stiamo vedendo è una nuova polarizzazione del mercato del lavoro —sottolinea Marrone—: c’è una parte dei lavoratori che possono rimanere a casa protetti e un’altra parte che è costretta a rimanere per strada. Il governo non smetterà di parlare di solidarietà nazionale, ma che tipo di paese è quello in cui la sopravvivenza di un lavoratore si basa sullo sfruttamento di un altro?”

L’articolo, qui parzialmente modificato, è stato precedentemente pubblicato su Pie de Página.
Traduzione dallo spagnolo a cura di Alessandro Bricco e Caterina Morbiato

Caterina Morbiato è antropologa culturale e giornalista freelance. Come antropologa si è occupata di migrazioni e antropologia della violenza in Italia e in Messico, paese in cui vive da sette anni. Ha lavorato come giornalista freelance per media messicani, spagnoli e italiani. Attualmente è corrispondente da Città del Messico per la testata giornalistica El Sur, principale quotidiano dello stato meridionale di Guerrero. Scrive principalmente di diritti umani, lavoro e tecnologia, migrazioni. É redattrice del blog “L’America Latina. Immaginari e Storie dai Sud del Mondo”.

É candidata al Dottorato in Studi Latinoamericani presso l’Università Nazionale Autonoma del Messico (UNAM) con una tesi auto-etnografica sull’importanza del camminare nel contesto urbano di San Salvador, El Salvador.

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