Poliziotto in tenuta antisommossa si rivolge a una folla di manifestanti nel quartiere di West Point a Monrovia, dopo l'entrata in vigore della quarantena nel tentativo di contenere la diffusione di Ebola nel 2014.

Oltre il Governo epidemico, rafforzare le risposte delle comunità

di: Umberto Pellecchia

Poliziotto in tenuta antisommossa si rivolge a una folla di manifestanti nel quartiere di West Point a Monrovia, dopo l'entrata in vigore della quarantena nel tentativo di contenere la diffusione di Ebola nel 2014.

Le epidemie che colpiscono una società sono un evento etnografico complesso, un “fatto sociale totale”. Come in esperienze precedenti (AIDS, Ebola), anche in questi tempi di Covid-19 l’antropologia sta proponendo prospettive critiche sul fenomeno.

Essa rileva i rischi di medicalizzazione della società, i rapporti di forza economici o di classe, le limitazioni alle libertà civili in nome della sicurezza pubblica, le conseguenze sociali delle politiche di smantellamento della sanità pubblica. Più in generale quasi tutte le analisi mostrano come l’epidemia si agganci alle forme di disuguaglianza già esistenti nelle società, accentuandole. Per essere più precisi, non è tanto l’epidemia in sé a compiere questo processo, quanto la sua gestione, nella maggior parte dei casi governata dallo Stato con le sue istituzioni, in coordinazione con organismi sovra-statali e autorità scientifiche. Non uso a caso il termine “governo”: i protagonisti della gestione del fenomeno epidemico – in nome dell’orizzonte narrativo della salute pubblica – dispongono, infatti, di concetti, tecniche, tecnologie, narrazioni, che evocano il rapporto tra sovranità e individualità.

Ferme restando queste analisi critiche, che servono da cornice essenziale, in questo intervento vorrei soffermarmi su alcune sintetiche linee di osservazione etnografica che possono essere di interesse antropologico per capire come forse l’epidemia possa essere “gestita” con un approccio più vicino alle dinamiche comunitarie e meno top-down. Sono convinto, infatti, che le prospettive critiche dell’antropologia abbiano bisogno di mostrare con convinzione come le società e le culture si organizzino, perfino di fronte a fenomeni estremi, anche al di là di forme centralizzate e fortemente burocratizzate di potere. Ritengo inoltre che l’etnografia, narrando forme di organizzazione bottom-up, disponga di un potenziale unico che può essere di aiuto effettivo alle risposte epidemiche, in coordinazione con personale sanitario, epidemiologi e cittadini stessi [1].

Gli spunti seguenti si basano su pratiche comunitarie osservate in Liberia, durante l’epidemia di Ebola del 2014/2015. Esse permettono, con tutte le dovute cautele, un certo di grado di comparazione con le attuali dinamiche relative al Covid-19 e possono potenzialmente servire come riflessioni utili per l’impegno antropologico.

Risposte comunitarie alla diffusione dell’epidemia

Contrastare un’epidemia in assenza di vaccini significa essenzialmente contenere il più possibile la sua diffusione. La quarantena, l’isolamento di aree geografiche ad alto potenziale epidemico e il distanziamento sociale sono normalmente i metodi usati a tal fine. Di solito tali azioni sono imposte top-down dai Governi statali attraverso forze di polizia e di controllo del territorio. La letteratura, oltre che la cronaca, mette in luce come già nel breve periodo ciò provoca resistenze e disobbedienze nella popolazione a causa della coercizione e dell’uso della forza (fisica, legislativa o simbolica) con cui si dispiegano le azioni governative di controllo. Tuttavia forme di controllo epidemico e di contenimento della diffusione sono condotte anche dalle comunità stesse, indipendentemente dalle forme coercitive governative, e spesso in contrasto a queste.  In Liberia, già all’inizio dell’epidemia di Ebola nel 2014, i quartieri della capitale Monrovia e alcuni villaggi rurali si auto-organizzarono con diverse azioni. Ad esempio, mettendo in pratica una sorveglianza sull’arrivo dei non residenti per evitare l’entrata di potenziali diffusori; utilizzando i network locali (scuole, chiese, moschee, centri di aggregazione) per isolare i sospetti; installando punti di lavaggio mani dotati di sapone. Nella maggior parte dei casi, queste azioni erano sostanzialmente sconosciute alle istituzioni statali. Al pari di azioni di controllo epidemico, le comunità svilupparono anche potenziali forme di sostegno e solidarietà: distribuzione di viveri a chi non poteva uscire di casa, coinvolgimento del personale medico-sanitario nel caso di soggetti potenzialmente infetti senza che questi si dovessero spostare, fino a forme di prossimità amicale e sostegno emotivo. In molte situazioni, forme di gestione epidemica comunitaria trovavano aiuto nei medici locali e in piccoli ambulatori di quartiere o di villaggio. Questi, in stretto contatto con il territorio, eseguivano i primi screening o permettevano di mantenere la continuità terapeutica per pazienti non affetti da Ebola ma comunque con patologie in corso. In tal senso l’auto-organizzazione comunitaria, oltre a sviluppare un senso di responsabilità condivisa, si aggancia alla medicina di territorio.  Le risposte comunitarie all’epidemia non necessariamente appiattiscono i rapporti di potere o di forza. Tuttavia, la prossimità geografica e relazionale consentiva un auto-controllo comunitario sugli abusi di potere e modi più diretti di partecipazione.

Elaborare il lutto, celebrare la guarigione

Per quanto sia sconcertante, il fenomeno epidemico non necessariamente sfalda o congela le relazioni sociali e comunitarie. Paradossalmente sono le azioni di salute pubblica messe in atto dallo Stato e dai Governi che determinano lacerazioni sociali e culturali, mettendo pericolosamente a rischio ancora una volta l’obiettivo stesso di queste azioni, cioè contenere la trasmissione. L’interdizione delle cerimonie funebri – caratteristica di molte epidemie, compresa quella attuale di Covid-19 – e l’uso frettoloso di crematori o addirittura di fosse comuni, nega la necessità di elaborazione del lutto da parte di chi perde un parente o un conoscente. Ma, di fatto, alimenta anche l’incredulità e la sfiducia sociale di fronte allo stato di eccezione imposto. Dal canto loro, durante l’Ebola in Africa, le comunità hanno sviluppato pratiche funerarie alternative, al fine di consentire in tutta sicurezza lo svolgimento delle cerimonie [2]. Ciò ha permesso di mantenere un legame di continuità necessario non solo da un punto di vista simbolico, ma anche politico-economico. I funerali infatti sono contesti dove avvengono e si attivano economie, negoziazioni patrimoniali, di diritti fondiari e di successione politica. Il Governo liberiano, con un approccio riduzionista, negò inizialmente le cerimonie funebri, etichettandole frettolosamente come “tradizioni culturali” (o “abitudini”). Al contempo esso ostentava l’uso delle forze dell’ordine e militari, anche nella gestione dei defunti. [3] L’importanza di elaborare il lutto va di pari passo con la necessità di mostrare la possibilità di guarigione. Ancora una volta, per tali pratiche, le comunità liberiane sfruttavano le reti di solidarietà legate ai quartieri, alle scuole, alle chiese e a forme di aggregazione sociale formali o informali. I “guariti” dal virus – coloro che tornavano a casa dopo un lungo periodo di degenza – pur nella loro sostanziale ambiguità di soggetti “rinati”, venivano celebrati e accolti nelle loro dimore da festeggiamenti o con doni di cibo e vestiti. [4].

Etnografia al tempo delle epidemie

Questi accenni etnografici mettono in relazione pratiche comunitarie sviluppate durante l’epidemia di EVD (Ebola Virus Disease) in Africa occidentale, con la situazione prodotta dall’attuale pandemia di Covid-19. Mi sono basato sulla mia esperienza di campo in Liberia nel 2014 e 2015, dove ho lavorato come ricercatore per l’Unità di Ricerca dell’organizzazione non governativa Médecins Sans Frontières (Pellecchia 2015; 2017) . Mi sono stati molto utili, inoltre, i lavori di Paul Richards (2015; 2016) e del suo team durante la medesima epidemia di Ebola. Utilizzando il concetto anglosassone di people’s science, Richards (2016) mette in luce come durante l’epidemia di Ebola in Sierra Leone, gli interventi di contenimento della diffusione del virus sono stati più efficaci e meglio elaborati laddove le comunità sono state prese in considerazione come agenti e non semplici ricettori degli interventi stessi, grazie alle iniziative e alle esperienze già localmente esistenti. La decentralizzazione della gestione dell’epidemia è un’ipotesi interessante: essa andrebbe a collegare le pratiche comunitarie e la medicina del territorio, in un’ottica preventiva e partecipativa. L’antropologia aiuterebbe in maniera sostanziale non solo descrivendo le pratiche sociali, ma anche proponendo, attraverso i suoi strumenti teorici, un concreto indirizzo alle forme di prevenzione e controllo del virus. L’analisi dei rapporti di parentela e affinità, ad esempio, diventa uno strumento essenziale e fondamentale per comprendere le logiche relazionali all’interno delle comunità, sia durante eventi di raggruppamento sociale potenzialmente rischiosi per la diffusione virale (matrimoni, funerali, eccetera), sia nell’ordinarietà dei rapporti sociali, amicali e familiari. Conoscere tali logiche può supportare, in maniera pratica e approfondita, i metodi di contact tracing che costituiscono un aspetto fondamentale dell’analisi epidemiologica e del controllo della propagazione del virus (Richards 2015). Stesso discorso vale per il patrimonio di conoscenze antropologiche sulla gestione fondiaria, i rituali, il concetto di persona, le logiche di quartiere, la vita urbana, i saperi  medici, le percezioni del rischio e le migrazioni. In sostanza, se l’obiettivo è mostrare limiti e rischi di un governo epidemico centralizzato e basato su logiche di potere, allora ribaltare l’ottica e puntare sulla centralità delle pratiche dal basso può diventare una strada interessante da percorrere.

  Umberto Pellecchia è antropologo, Ph.D Università di Siena. Attualmente copre la carica di Qualitative Research Advisor presso il Centro Operativo di Médecins Sans Frontières, Bruxelles. 

Note

1. La definizione di comunità che uso di seguito viene lasciata intenzionalmente aperta per ragioni di convenienza narrativa: per comunità voglio intendere tutte quelle forme di gruppi sociali legati da un certo grado di prossimità geografica o relazionale, siano essi villaggi, quartieri, famiglie allargate, gruppi informali, associazioni.

2. Le comunità islamiche modificarono alcune pratiche funerarie sospendendo le componenti che prevedevano il lavaggio della salma. Alcune chiese pentecostali si organizzarono per portare l’ultimo saluto al defunto con tutte le misure di sicurezza. Nei villaggi, infine, alcune processioni vennero sospese in favore di raggruppamenti ristretti. 

3. Qualcosa di molto simile all’uso dei camion dell’Esercito per il trasporto delle bare nel Nord Italia.

4. I guariti durante le epidemie sono caratterizzati da molte ambivalenze circa il loro statuto sociale, e spesso sono circondati da credenze e narrazioni. Inoltre l’uso del plasma a livello clinico li rende oggetto di interesse istituzionale.  

Bibliografia

Pellecchia U. et al. (2015), Social Consequences of Ebola Containment Measures in Liberia, in PLOS-One, doi: https://doi.org/10.1371/journal.pone.0143036;

Pellecchia U. (2017), Quarantine and Its Malcontents: How Liberians Responded to the Ebola Epidemic Containment Measures, in Anthropology in Action, 24, 2 : 15-24;

Richards P. et al. (2015), Social Pathways for Ebola Virus Disease in Rural Sierra Leone, and Some Implications for Containment, in PLOS-One, doi: https://doi.org/10.1371/journal.pntd.0003567;

Richards P. (2016), Ebola: How A People’s Science Helped End an Epidemic, Zed Books, London.

 

 

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