Il 26 gennaio 2024, nella sala convegni del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM), si è tenuto il convegno “Convivere. Le scienze sociali e il rapporto Uomo-Natura”, nel quale è stato presentato e discusso Etnosimbiosi, progetto di ricerca da me realizzato, finanziato con i fondi del 5×1000 del PNALM. A ragionare sulla presentazione sono stati chiamati il Professor Alessandro Simonicca, la professoressa Letizia Bindi, il professor Salvatore Bimonte e la dottoressa Maria Benciolini.

Nei giorni successivi all’evento si sono sollevate delle riflessioni a commento e a critica dell’evento stesso e dei relatori. Insieme a Maria Benciolini abbiamo deciso di contribuire al dibattito con questa riflessione congiunta su quanto emerso, e abbiamo scelto il sito dell’associazione di cui facciamo parte perché la riteniamo la piattaforma più opportuna a chiarire il nostro posizionamento professionale in merito a quanto accaduto.

Etnosimbiosi, un progetto “nel” Parco, non “dal” Parco. 

(Flavio Lorenzoni)

Le critiche e le riflessioni degli allevatori in merito alla gestione dell’evento, alle modalità comunicative di noi relatori e a quanto emerso nella presentazione sono una testimonianza sulla quale è stato e sarà interessante continuare a riflettere con loro nei mesi a venire.

Tra le riflessioni emerse, però, intendo soffermarmi su alcuni spunti in merito alla professione dell’antropologo forniti da Virgilio Morisi, allevatore che si è fatto portavoce di alcuni suoi colleghi presenti al convegno, e da Dario Novellino, antropologo. Novellino prende a spunto le parole di Morisi, che esprime in un commento quanto segue: “Ci preoccupa che la stesura di piani socio-economici che decideranno il futuro del nostro territorio siano affidati a studiosi e ricercatori che, per necessità di carriera, si sono appiattiti in modo acritico sulle posizioni e aspettative del Parco”. 

Confermando sostanzialmente i dubbi di Morisi, Novellino approfondisce la riflessione sulla questione del rapporto tra antropologi e committenza, chiedendosi: “Quale ricercatore, oggi, con la penuria di posti di lavoro e fondi per la ricerca, rinuncerebbe a consulenze ben pagate per motivi di ordine etico?”. Aggiunge Novellino, citando l’ANPIA, che gli antropologi hanno anche un codice deontologico, ma che “dietro i codici e le linee guida ci sono gli uomini, e quindi una distorsione di questi valori e principi di riferimento risulta spesso inevitabile, anzi è ormai all’ordine del giorno; soprattutto in Italia, dove i fondi per la ricerca sono quanto mai limitati, se un ricercatore vuole andare avanti con il suo lavoro deve riuscire a saper mantenere un buon rapporto con le istituzioni locali e soprattutto con gli Enti Parco, evitando che il risultato delle proprie ricerche vada ad imbarazzare e mettere direttamente in discussione l’operato dei committenti”.

Ho ritenuto opportuno citare queste due opinioni con i virgolettati per precisione e ritengo doveroso chiarire la mia posizione sia in merito a quanto detto, ma soprattutto in merito al mio rapporto lavorativo con il PNALM, in modo da fugare eventuali equivoci nati il 26 gennaio al convegno.

È bene iniziare dal fatto che, non mi è stata affidata la stesura di nessun piano socioeconomico, non ancora almeno, e se dovesse succedere chiederei che sia prevista una ricerca di campo che abbia un’impronta socio-antropologica e orientata al coinvolgimento delle collettività locali. Il convegno presentava e commentava un progetto di ricerca che non c’entra niente con il piano del parco.

Ciò detto, la mia posizione (come quella degli altri relatori) è stata definita appiattita su quella del Parco sulla base dei venti minuti concessi nell’ambito del convegno per esporre il lavoro svolto. Condensare un anno di lavoro etnografico, con decine e decine di ore di girato, di interviste, di incontri informali e di fotografie in un intervento tanto breve è impresa assai ardua, se non impossibile. Si può fornire un quadro generale del contesto indagato e poco di più, ma la presentazione in casi simili è sempre e comunque manchevole e si presta in ogni caso a critiche più o meno pertinenti. 

In merito al posizionamento nei confronti del PNALM per la realizzazione del progetto di ricerca, le prime due righe del Bando di selezione al quale ho partecipato (https://www.parcoabruzzo.it/dettaglio.php?id=64986) recitano quanto segue “Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise intende ampliare le attività di ricerca e di studio finalizzate alla integrazione della dimensione strettamente ambientale dello sviluppo sostenibile”. Si tratta di una frase che io ho interpretato in questo modo: Il Parco vuole dotarsi di competenze professionali in grado di ascoltare in modo approfondito le ragioni, le proposte, le critiche provenienti dalle comunità che vivono al suo interno, ed intende acquisirle affidandosi all’elaborazione di specifici progetti.

Quelle sono state le due righe che mi hanno convinto a partecipare al bando, e da quel momento ho iniziato ad interrogarmi sul mio posizionamento come professionista all’interno del PNALM. 

Sin dai primi colloqui conoscitivi, ho esplicitato la necessità di muovermi in autonomia per la selezione degli interlocutori da coinvolgere nella ricerca. Ho inoltre evidenziato che sarebbero potute giungere anche opinioni non in linea con le politiche adottate fin qui dall’Ente Parco, e che quelle voci sarebbero comunque dovute entrare tra le fonti della ricerca senza nessun tipo di censura. 

Era inoltre importante che il numero degli interlocutori fosse mantenuto ristretto a dieci attività economiche, poiché la ricerca etnografica è di tipo qualitativo e richiede un impegno e una dedizione totalizzanti nei confronti dei soggetti che accettano di partecipare. Aumentare il numero delle attività economiche coinvolte avrebbe significato dedicare meno attenzione ai singoli interlocutori.

L’obiettivo è stato quello di mantenere una condizione di terzietà, riportando tutte le voci senza farle mie aprioristicamente e questa ritengo fosse la corretta posizione deontologica da adottare in quel contesto.

Etnosimbiosi è quindi un lavoro di ricerca avviato “nel” Parco, non “dal” Parco. Dal convegno si evince poco di tutto ciò ed è per questo che rispondere alle critiche sollevate è utile a sgomberare il campo da equivoci.

È doveroso infine specificare che il convegno del 26 gennaio non era la restituzione del progetto, che avverrà in seguito, ma solo una sua presentazione generale e avrebbe dovuto essere organizzato e gestito meglio, in maniera più inclusiva e utile a ridurre le distanze tra i relatori e i partecipanti.

La nuova fase di questa ricerca inizia, dunque, in un contesto vivo, effervescente, ricco di spunti di riflessione da cogliere ascoltando le testimonianze di tutti, le strutture ricettive, il Parco e le Istituzioni locali, gli artigiani, i turisti e gli altri portatori di interesse, compresi Morisi e i suoi colleghi. Per questo ho assistito con attenzione alla nascita dell’associazione da loro costituita dopo mesi di lavoro e presentata lo scorso 7 febbraio ad Avezzano. Si tratta di occasioni utili per ricostruire, nell’ambito della ricerca, le reti e le dinamiche sociali che abitano il territorio. 

Concludendo, credo che non sia compito dell’antropologo proporre soluzioni ai problemi e ai conflitti. Si tratta piuttosto di portarli alla luce facendo emergere ciò che di solito è sottaciuto, non detto o non udibile, favorendo le condizioni utili al dialogo e al confronto. Il rischio nel perseguire questi obbiettivi è di finire coinvolti nelle stesse dinamiche conflittuali che cerchiamo di comprendere. Per questi motivi le istanze che gli allevatori sollevano nei confronti delle Istituzioni deputate alla gestione del territorio non pongono gli antropologi come antagonisti, bensì come ascoltatori interessati a cogliere le loro voci ed inserirle nel coro polifonico dei contesti sociali nei quali la ricerca si svolge. 

Riflessività, posizionamenti, frizioni: l’antropologia professionale in contesti complessi 

(Maria Benciolini)

Il lavoro degli antropologi professionisti è per forza di cose ibrido e contaminato, e come per la maggior parte delle altre professionalità esiste certamente il rischio che i professionisti siano in qualche modo influenzati dalla committenza. Per un antropologo esiste però anche il rischio opposto, e cioè quello di lasciarsi assorbire dalla visione dei propri interlocutori sul campo, perdendo oggettività tanto quanto la si perderebbe facendosi influenzare da chi ci ingaggia.

Tuttavia, se c’è una cosa che gli antropologi sanno (e dovrebbero) fare, in qualsiasi contesto lavorativo si trovino, è interrogarsi sul proprio lavoro e sul proprio posizionamento. Questa è una caratteristica intrinseca al nostro lavoro, proprio perché cerchiamo di mettere in pratica un’immersione consapevole nei mondi che vogliamo studiare e comprendere. Spesso tali contesti suscitano il nostro interesse perché sono in qualche misura conflittuali. 

Ciò che un antropologo fa, o dovrebbe fare, è proprio cercare di comprendere e poi di restituire le frizioni, la complessità, i conflitti, e lo fa prendendo in considerazione i punti di vista di tutti, ma anche le contraddizioni interne a ciascun punto di vista, i pregiudizi che le diverse parti in causa hanno rispetto ai propri interlocutori e al mondo in cui si muovono. 

Quando si affrontano temi e problemi concreti, oltre a cercare di comprendere e descrivere le situazioni, ci si trova però anche nella condizione di dover decostruire i pregiudizi e gli assunti ideologici dei diversi portatori di interessi, e questo presta il fianco al rischio di strumentalizzazioni e fraintendimenti, da parte di diversi attori.

Inoltre, nella maggior parte dei casi un antropologo professionista è chiamato non solo a cercare di comprendere la realtà ma anche a favorire il dialogo tra le parti e la ricerca di strategie possibili che spesso richiedono la necessità di fare compromessi tra i portatori di interesse, di accettare diversi punti di vista e questo, quando i conflitti sono di lunga data e coinvolgono vissuti personali e collettivi profondi, è molto difficile.

Quando un antropologo sceglie di entrare in un contesto conflittuale, è probabilmente inevitabile che si formi delle opinioni su tale conflitto, e tutto sommato ritengo giusto che sia così: come tutti, infatti, abbiamo anche noi una visione del mondo e dei valori che condividiamo. Tuttavia, proprio per questo esistono i codici deontologici. In ogni caso, la riflessività tipica della nostra professione è una risorsa che ci permette di distinguere il nostro ruolo professionale dai nostri posizionamenti personali. 

Ormai da alcuni anni lavoro sul tema del conflitto con i predatori; lo faccio prevalentemente attraverso progetti che si prefiggono come obiettivo quello della coesistenza tra gli esseri umani e diverse specie di animali selvatici. Una parte significativa del mio lavoro consiste nell’ascolto del punto di vista di allevatori e pastori: l’ho fatto sulle Alpi nell’ambito del progetto Pasturs, che lavora a fianco degli allevatori promuovendo la presenza di volontari che li supportano in alpeggio e del progetto LIFEstockProtect. 

Quest’ultimo promuove l’adozione di misure di protezione del bestiame dagli attacchi del lupo e vede, come capofila e tra i partner, associazioni di allevatori. Tra le azioni iniziali del progetto era prevista anche una ricerca qualitativa sulle percezioni di allevatori e pastori rispetto alle misure di prevenzione, ricerca che ha restituito le difficoltà economiche, lavorative e personali che l’adozione di tali misure comportano, ma anche la volontà di molti allevatori di adottarle, per svariate ragioni.

Nell’Appennino centrale ho lavorato per il progetto LIFE bear smart corridors, di nuovo, con ruolo di ascolto delle comunità sulla loro esperienza con l’orso bruno marsicano. Anche in questo caso, è stato presentato, insieme ad altri esperti, un report che mostrava criticità e opportunità di vivere in territori in cui si trova anche questa specie. 

Lavorare in questo tipo di progetti porta a dialogare e conoscere il punto di vista anche di scienziati, biologi, ambientalisti, e un antropologo ha il dovere di raccogliere e di rendere conto anche di questi portatori di interessi e, quando possibile, di metterli in dialogo con quelli di allevatori, cacciatori, turisti e altri fruitori del territorio.

Mi sento di proporre un’ultima riflessione: per dialogare, sembra banale dirlo, è necessario volerlo fare, è necessario rispettare alcune regole, confrontarsi con i propri interlocutori con onestà intellettuale, e condividere alcune basi, non solo nell’ambito del confronto stesso, ma più in generale anche nel proprio contesto di vita e lavoro. 

Crediamo entrambi sia centrale sottolineare l’importanza che Parchi, Comuni, Regioni, Enti gestori di territori, Associazioni locali, si dotino di professionisti nel campo delle scienze sociali e specialmente di antropologi, perché significa dotarsi delle orecchie necessarie ad ascoltare chi vive nei territori. Senza questo tipo di professionisti sarebbe come occuparsi di orsi, lupi, cervi e camosci senza i biologi e gli scienziati della conservazione. 

Pensiamo che la riflessione sul posizionamento degli antropologi e sulle relazioni con la committenza e gli attori sul campo debba rimanere viva, per questo, invitiamo i colleghi a condividere pensieri ed esperienze su queste tematiche.

Flavio Lorenzoni
Maria Benciolini

Associati ANPIA della Commissione Tecnica Antropologia Ambientale

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