La Fine del Mondo come lo conosciamo?

Covid-19 La fine del Mondo che conosciamo, Persone in fila a distanza di un metro con la mascherina

di Damiano Gallinaro

In questi giorni in cui guardiamo al futuro con un ovvio pessimismo è facile cadere nella tentazione di vedere in quanto accade dei segnali di un’imminente Fine del Mondo.

Il crollo delle certezze, di tutto ciò che ritenevamo acquisito e parte del nostro patrimonio culturale, sociale e umano, ci porta inevitabilmente a riconsiderare il nostro posto nel mondo e soprattutto a pensare: come saremo dopo aver vinto quella che stiamo, metaforicamente e non, considerando una guerra?

Ci sarà la ricostruzione? E quale tipo di ricostruzione? Saremo ancora capaci di fidarci dei nostri gusci di pelle? Considereremo ancora il contatto come un elemento fondamentale del nostro vivere il rapporto con l’altro? Oppure questo distanziamento sociale ci consentirà di ultimare un processo che era già in corso di allontanamento progressivo dall’altro fino a renderci delle monadi?

Le domande sono molteplici e chiaramente molte risposte le potremo ottenere solo a seguito del superamento della fase conclamata del contagio.

‘Reclusione’

In questi giorni di “reclusione” ognuno di noi ha cercato il modo di elaborare il lutto della perduta libertà, della perduta sicurezza. C’è chi si è lanciato in nuove esperienze culinarie, chi ha riscoperto la lettura, chi ha svuotato cantine, chi si è immerso in lunghe maratone di serie televisive, magari con tema proprio il contagio o virus letali.

Io ne ho approfittato per rileggere alcune parti di un libro che, nel suo essere del tutto sperimentale e incompiuto, ho sempre considerato affascinante e che proprio in questi giorni può aiutarci a comprendere questo tempo “sbagliato”.

Il libro in questione è La Fine del Mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali di Ernesto De Martino, nella nuova edizione a cura di Giordana Charuty, Francesco Massenzio e del compianto Daniel Fabre (edizioni Einaudi, 2019).

De Martino scrive questo libro, che è una sorta di mappa incompleta del nostro mondo in cambiamento, nei suoi ultimi anni di vita e di ricerca, e ci propone la comparazione e lo studio di quattro tipi di apocalissi: le apocalissi psicopatologiche, l’apocalisse cristiana, l’apocalisse considerata  dal punto di vista dei nuovi movimenti profetici legati alla decolonizzazione, l’apocalisse dell’occidente. A questo De Martino affianca lo studio dei legami tra antropologia, marxismo e religione, e tra antropologia e filosofia.

Sarebbe difficile nell’economia di questa riflessione tenere conto di quanto contiene questa Wunderkammer di riflessioni e proposte di lettura e di rilettura del mondo, sperando di avervi incuriosito e quindi di avervi spinto a leggere la “Fine del Mondo”, mi soffermerò in questa sede solo su quella che De Martino ha definito l’Apocalisse dell’Occidente, o meglio l’apocalisse senza escalation.

 Domani ci sarà ancora un mondo?

Nella nuova edizione de La Fine del Mondo trova posto un intervento ad un Convegno del 1964 dal titolo Il mondo di domani, organizzato dal filosofo di ispirazione cristiana Pietro Prini, in cui alcuni intellettuali di diversa provenienza scientifica e artistica si trovano a discutere proprio su come diverse sensibilità immaginavano il mondo di domani, e a cui partecipa anche De Martino con un intervento in cui tenta di presentare il suo progetto, che resterà incompiuto.

De Martino nel suo intervento dal titolo “Il problema della fine del mondo” esordisce con una frase che probabilmente lascia completamente spiazzati gli uditori, tanto da fargli ammettere che “potrebbe sembrare leggermente iettatoria” nel senso napoletano del termine, ma è il punto da cui parte tutto il suo ragionamento: “domani il mondo, in quanto mondo culturale umano può finire … una qualsiasi risposta a come possa o debba essere domani il mondo comporta la domanda preliminare se domani vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirino alla sua fine” (pag. 69).

In questo intervento del 1964, De Martino cerca di dare una chiave di lettura delle sue ricerche. Prenderemo questo testo come punto di partenza per queste brevi riflessioni, pur non pretendendo di render conto della mole di suggestioni presenti nelle pagine de “La Fine del Mondo”.

Come comprendere quando un mondo sta finendo?

La chiave è nel concetto stesso di Apocalisse in quanto serie di rivolgimenti che segnano la fine di un mondo e l’inizio di un altro. Quest’ultimo, aggiungo, non sempre è quello che speravamo e spesso si contraddistingue per la mancanza di riscatto (escaton).

Come afferma De Martino, tutti i mondi possono e devono finire, ma come comprendere quando “un mondo” in particolare sta finendo? Sta accadendo, ad esempio, proprio questo in questi giorni sospesi?

La chiave per interpretare il precipizio o il baratro in cui almeno apparentemente il nostro mondo sembra cadere sta nell’analisi di due terrori contrapposti: quello di perdere il mondo e quello di  essere perduti nel mondo.

Le domande che si pone, e ci pone, lo studioso sono: può davvero finire il mondo? Si può davvero perdere la presenza?

La perdita della presenza

Ecco, il concetto di perdita della presenza è centrale in questo dramma. Come spiegare la perdita della presenza?

De Martino lo spiega con chiarezza in un racconto intitolato Il Campanile di Marcellinara, che lo studioso riporta proprio nel suo intervento del 1964: “Mi accadde una volta, percorrendo in macchina una strada della Calabria, di chiedere ad un vecchio pastore alcune indicazioni su un certo bivio di cui andavo in cerca e poiché le sue informazioni erano poco chiare, gli proposi di accompagnarmi in macchina sino al bivio in questione. Il vecchio pastore accettò con estrema diffidenza il mio invito e durante il percorso guardava con crescente agitazione attraverso il finestrino, come per cercare qualcosa di molto importante. D’un tratto gridò : < Dov’è il Campanile di Marcellinara? Non lo vedo più.>  Effettivamente il campanile di questo villaggio era scomparso all’orizzonte, ma con ciò si era profondamente alterato il mondo familiare, lo spazio domestico, di questo arcaico pastore, il quale per tale scomparsa esperiva angosciosamente il crollo della sua augustissima patria culturale, con l’abituale passaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti con il gregge” (pag.73).

Conclude De Martino: “questo è un esempio estremo e quasi caricaturale del legame con una patria culturale come condizione di operabilità nel mondo” (pag. 73).

Sicuramente è un esempio caricaturale, e forse oggi non parleremmo più di patrie culturali, ma in fin dei conti non è proprio quello che sentiamo in questi giorni? Questa mancanza dell’orizzonte di senso, del quotidiano, della prospettiva del domani, della “domesticità” come base dell’azione nel mondo?

De Martino utilizza questo racconto per spiegarci cosa intende per presenza e come questa rischi di perdersi di fronte al crollo di un intero sistema di valori e di sicurezze che fanno ormai parte integrante della nostra cultura, del nostro modo di vivere il mondo, la città, il villaggio.

Il mondo della Fase 2

Quale sarà allora il mondo che costruiremo o ricostruiremo quando partirà la Fase 2?

Ci sarà ancora il nostro Campanile a guidarci la via, a darci conforto nel nostro viaggiare?

Oppure dovremmo reinventarci un nuovo mondo fatto di nuove regole e nuovi modi di pensare gli spazi e i tempi ?

Il pensiero di De Martino ancora una volta e a distanza di anni ci pone davanti ad una sfida che noi “scienziati culturali” dobbiamo accettare per essere protagonisti nel mondo che verrà, per aiutare chi ci è accanto ad elaborare un nuovo concetto di domesticità, allontanandolo da ogni inquietante estraneità, e a volgere lo sguardo verso la stessa comunità e ritrovare in qualche modo in essa un nuovo orizzonte di senso.

E chissà che ognuno di noi non riesca a trovare un nuovo Campanile a cui legare il suo viandare.

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