Intervista alla Commissione MAM (Migrazione, Accoglienza, Mobilità)

di

ANPIA

L’antropologo dove lavora e perché

 

Secondo la vostra esperienza l’antropologo in Italia ha un ruolo ben codificato all’interno dell’ambito migrazioni, accoglienza e mobilità?

L’ambito che ha definito il nome della Commissione MAM (Migrazione, Accoglienza, Mobilità) è di certo mutevole sia come oggetto di ricerca, sia come ambito di applicazione. E’ mutevole la giurisprudenza in materia, sono mutevoli i diversi attori che intersecano questo oggetto in relazioni più o meno conflittuali (politica, scuola, sanità, lavoro, per citarne alcuni), ma soprattutto è mutevole la percezione che il mondo contemporaneo ha del fenomeno della mobilità umana. Con qualche costante, una tra tutte se vogliamo fare un esempio, facilmente individuabile è la dinamica del “capro espiatorio”, che da sempre si applica a chi è percepito come “straniero”.

Inoltre storicamente in Italia, la migrazione interna o da altri paesi, non è mai stata considerata un fenomeno di studio antropologico, ma piuttosto un fenomeno di interesse più storico e sociologico, salvo poi ibridare giustamente metodologie di ricerca, e integrare categorie a volte difficilmente distinguibili.

L’ambito migrazione, accoglienza e mobilità copre una serie di settori e servizi molto vasti, questo rende problematico e allo stesso tempo interessante la declinazione che il ruolo dell’antropologo può assumere in questi casi. Il ruolo dell’antropologo in questi contesti non è sempre chiaro e ben codificato. Questo può essere correlato a due ordini di problemi: da un lato, il fatto che sovente l’antropologo è chiamato a fare delle attività o mansioni per cui lo sguardo e le expertise antropologiche sono fondamentali ma non esclusive e spesso di sottofondo (per esempio l’insegnamento dell’italiano L2: è chiaro che l’approccio antropologico anche nella funzione di mediazione fra le insegnanti e i ragazzi è importante, ma non è esclusivo). Dall’altro lato, nella società, così come nel mondo del lavoro, non c’è una chiara consapevolezza di ciò che l’antropologo può fare, o non fare, in certi contesti, fra cui quello delle migrazioni. E’ come se le competenze antropologiche venissero riconosciute ma se (e solo se) accompagnate da altro tipo di qualifiche ed esperienze. Spesso, per esempio, alla figura dell’antropologo si preferiscono altre figure più facilmente “riconoscibili”, come i mediatori linguistico-culturali, gli educatori, i pedagogisti, i consulenti legali, i giuristi, gli insegnanti “classici”, gli psicologi (in maniera minore) che non sempre hanno un background di tipo antropologico ma sono facilmente incasellabili in categorie lavorative esistenti. Tuttavia, ci sono alcuni settori legati alle migrazioni che si stanno accorgendo dell’importanza della figura dell’antropologo e che ricercano profili specifici da accompagnare e integrare ad altre discipline. Gli enti di sanità pubblica ne sono un esempio. Se da un lato questo ci fa ben sperare, dall’altro siamo consapevoli che il percorso è appena cominciato! Infatti, guardando agli ultimi interventi legislativi che riguardavano la migrazione, è evidente che l’antropologia in Italia sia ancora una disciplina sconosciuta fuori dall’accademia, più che incompresa: nel bando indirizzato a integrare le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, vi era una lunga lista di classi di laurea che potevano accedere al bando, ma non la laurea in antropologia, benché le competenze richieste rientrassero ampiamente nel curriculum disciplinare. Sembra una rimozione più che esemplificativa!

Pertanto, nel contesto mutevole della migrazione, accoglienza e mobilità la figura dell’antropologo professionale è considerata solo marginalmente e in casi isolati e sporadici, come gli esempi riportati nella sanità pubblica. Al di là di ciò, possiamo quasi affermare senza timore di smentita che la figura dell’antropologo professionale in questo ambito non esista, anche perché non esiste in Italia la figura dell’antropologo professionale, eccezion fatta per gli accademici. Esistono tuttavia molti antropologi, persone che hanno studiato antropologia a livelli più o meno specifici che per affinità di interesse o per passione, che trovano lavoro o che vengono impiegati nell’ambito della migrazione, e che nel proprio lavoro riescono ad utilizzare gli strumenti acquisiti durante il percorso di studio o nelle esperienze di ricerca.

Perché, dal vostro punto di vista, sarebbe importante che l’antropologo professionista avesse uno spazio specifico anche all’interno di questo ambito?

Se, come abbiamo detto, la figura dell’antropologo delle migrazioni, ma dell’antropologo professionista più in generale, ha avuto finora difficoltà a far riconoscere i propri campi di azione al di fuori del mero ambito accademico ove storicamente trova luogo, da molti anni si può tracciare una tangibile necessità e volontà di strutturare lavorativamente uno dei campi di eccellenza della riflessione antropologica: quello della migrazione. Lo richiede il professionista antropologo, lo richiede il contesto geopolitico internazionale che, pur ambiguamente, sollecita attraverso i servizi di accoglienza e cura da un lato la comprensione, da un altro risposte e soluzioni (prêt-à-porter) ad aspetti individuati come specificatamente culturali inerenti le persone migranti. Si tratta di quell’eccesso di cultura che l’antropologia più avveduta è impegnata da decenni a mettere al bando, opponendosi a quelle derive essenzialistiche creatrici di identità monolitiche e ghettizzanti. L’importanza dell’antropologia in un ambito così eterogeneo quale quello delle migrazioni, in cui si dispiegano poteri e interessi politici internazionali storicamente determinati, impone senza dubbio un ripensamento critico di tali svilimenti culturali e la considerazione delle forze storiche, politiche ed economiche nei processi migratori internazionali. Impone, inoltre, un posizionamento a fronte della gestione delle persone migranti e alla dicotomia del migrante forzato ed economico, ma non un posizionamento puramente epistemologico, questo viene incorporato, agito. Il corpo dell’antropologo diventa corpo in azione nei servizi territoriali di assistenza, di cura, nei servizi legali, in quelli di orientamento, volti a osservare, ad ascoltare, a comprendere, a interrogare, a sorvegliare ed eventualmente denunciare la produzione e l’occultamento delle violenze istituzionali e dei poteri che attraverso di esse si agiscono; a fare dell’etnografia una strategica leva di cambiamento.

L’antropologo occupa oggi uno spazio ancora esiguo, ma privilegiato nei luoghi deputati alla gestione delle migrazioni (centri di accoglienza, hotspot, ospedali, sportelli di orientamento lavorativo, ecc.) dove l’etnografia rivela l’imbarazzo da un lato e la violenza dall’altro dell’incomprensione tra le sofferenze e le domande e le necessità portate da cittadini migranti da un lato e dei servizi territoriali per lo più impreparati al confronto con altre concezioni morali, e politiche del corpo, del diritto, della violenza dall’altro; qui l’antropologia può intervenire, di fatto interviene, affinché tale gestione non si trasformi in uno snodo insidioso e fallimentare. Sollecita pensieri critici, elabora strategie di intervento, promuove processi di integrazione e al contempo processi interpretativi di codici comunicativi diversi, non solo di lingue, ma di linguaggi. Egli sollecita la comunicazione di pratiche e saperi tra tutti i soggetti con i quali lavora: coloro che dispensano cure, assistenza e accoglienza e coloro che la ricevono. Indaga in questi legami gli interstizi in cui si insinuano, più o meno palesemente, meccanismi di violenze e le modalità e le ragioni per le quali esse vengono esercitate e riprodotte.

In che modo sta lavorando la vostra commissione per far emergere l’expertise antropologica maturata in questo ambito negli anni (al di là del riconoscimento contrattuale e professionale) e in che modo il processo di professionalizzazione cui essa sta contribuendo insieme all’ANPIA potrebbe giocare a vantaggio di tale ambito?

Fin dalla sua costituzione, la commissione MAM sta lavorando nell’ottica dell’emersione dell’esistente, cioè attraverso la condivisione delle esperienze lavorative di tutti i suoi membri e la riflessione in merito alle criticità incontrate.

La commissione ha cercato infatti di delineare un quadro complessivo dei contesti lavorativi che nell’ultimo decennio hanno permesso ad antropologi/ghe di sperimentare l’applicazione del loro sapere nel complesso ambito delle migrazioni, sebbene con ruoli e mansioni altri rispetto alla loro professionalità specifica.

Prima di ogni cosa, dunque, è stato necessario conoscersi. In tal senso la nascita di ANPIA si è rivelata di fondamentale importanza non soltanto per gli scopi e gli obiettivi che l’associazione sta portando avanti, ma soprattutto per aver fatto sì che un consistente numero di antropologi/ghe – che lavorano fuori dall’accademia – potesse incontrarsi, conoscersi, scambiarsi idee, confrontarsi e, soprattutto, fare rete. Lavorare a partire dalle esperienze concrete dei membri della commissione crediamo infatti sia la modalità appropriata per comprendere quali sono le funzioni specifiche della nostra professione ed al contempo aprire a nuove possibilità applicative. Il lavoro che la Commissione faticosamente sta cercando di portare avanti risulta, dunque, imprescindibile dalle esperienze e dalla formazione che ognuno/a dei membri ha maturato negli anni di lavoro svolti nel settore specifico.

Gli sforzi fatti dalla Commissione in questo primo anno e mezzo di lavori sono stati quindi guidati dalla necessità di comprendere a fondo la natura di progetti e di opportunità lavorative del settore delle migrazioni, considerando altresì la centralità assunta negli ultimi anni dall’accoglienza e dalla presa in carico di richiedenti protezione internazionale. La difficoltà più volte incontrata è stata quella di individuare e riconoscere la bontà dei progetti e delle opportunità presentatisi, e di capire se ci fossero i margini entro cui il contributo degli antropologi/ghe avesse guadagnato il giusto spazio e valore, nel rispetto dei fondamenti metodologici ed etici della disciplina, nonché dello statuto e del codice deontologico di cui l’associazione professionale si è dotata.

Tenere dritta la sbarra dei diritti – in un mercato del lavoro e in un settore come quello delle migrazioni e dell’accoglienza dei richiedenti e titolari di protezione internazionale affetto da pesanti anomalie e non poche distorsioni – è infatti ciò che più interessa alla Commissione, per la quale la qualità della prestazione lavorativa non può discernersi da profonde competenze (teoriche e metodologiche). Provando, dunque, a ragionare per il presente e per il futuro di questo settore, di chi ci lavora e di chi ne beneficia, la Commissione intende continuare ad operare in senso riflessivo, cioè capitalizzando le esperienze e le expertise maturate dai membri della Commissione con l’obiettivo di sgretolarne la precarietà diffusa ed operare nel solco delle tutele e del rispetto.

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