Di Nicoletta Landi e Valentina Rizzo
“Non di dinosauri, non di stelle,
ma…
le memorie storiche e le tradizioni”
Damiano Gallinaro socio ANPIA e membro del Collegio dei Saggi ANPIA, ci racconta la sua esperienza professionale oltre lo stereotipo e il malinteso sull’antropologo.
Quando hai scoperto l’esistenza dell’antropologia?
Penso che in qualche modo l’antropologia fosse parte di me fin dalla nascita. Mio padre, ora in pensione, era un marinaio, navigava sulle petroliere. Spesso, siccome stava fuori per mesi, nostra madre ci portava a trovarlo nei porti dove si fermava con la nave, si trattava di viaggi avventurosi. Il viaggio, inteso come ricerca, come meraviglia, quindi è stato sempre presente nella mia vita. Mio padre, poi, dai suoi viaggi portava sempre dei cimeli incredibili, statue di Vishnu ed altri dei, insomma, la nostra casa era ed è ancora una Wunderkammer come la intendeva Athanasius Kircher nel 1600. Il viaggio, la scoperta mi hanno portato a guardare l’altro in modo diverso, a cercare l’altro. Anche se l’incontro ufficiale con l’antropologia arriverà molto in ritardo intorno ai 30 anni, dopo un travagliato percorso di studio in Giurisprudenza. Quando finalmente ebbi tempo e soprattutto qualche soldo da investire nei miei hobby, diciamo così, mi iscrissi alla triennale di “antropologia” alla Sapienza e ebbi poi la fortuna di iniziare subito a lavorare sul campo e la prima ricerca che fai in genere ti segna. Devo ringraziare i Professori Pietro Clemente e Fabio Dei per avermi dato la possibilità di far parte di una delle meravigliose equipe che investigarono la ricostruzione della memoria pubblica delle stragi naziste in Toscana. Nonostante questo interesse per la memoria e il suo tramandarsi o reinventarsi, quando si trattò di scegliere un progetto di ricerca per il Dottorato fui in qualche modo travolto da Capo Verde e dal suo immaginario turistico. Un’esperienza bella ma difficile soprattutto nella resa finale. Diciamo che il mio rapporto con l’Accademia non è stato facile e io ci ho messo molto di mio. Da qualche anno sono tornato ad occuparmi di memoria e violenza soprattutto nei Balcani del Sud, l’ex Jugoslavia per essere precisi, a cui sono legato da legami profondi e inspiegabili.
La tua famiglia ha cercato di farti cambiare idea? Avrebbero preferito iniziassi una carriera da gangster piuttosto?
Diciamo che nella scelta di Giurisprudenza dopo il Liceo c’entravano molto anche le aspettative dei miei. Probabilmente avrei scelto fin dall’inizio Lettere, ma come di dice “giurisprudenza ti apre tutte le porte”. E in effetti mi è servita come punteggio nei concorsi e come titolo per partecipare e poi vincere il concorso per il Dottorato di ricerca. Quindi, in fin dei conti, anche se non sono mai diventato avvocato, giurisprudenza mi ha aperto alcune porte. I miei poi, si sono abbastanza adeguati alle mie stranezze antropologiche.
Quando hai iniziato a interessarti e/o ad occuparti di uno specifico ambito di ricerca/lavoro?
Come ho già anticipato sopra, il primo anno in cui iniziai a studiare antropologia fui coinvolto nel progetto patrocinato dalla Regione Toscana riguardante la ricostruzione della memoria pubblica delle stragi naziste in Toscana. Io ebbi la fortuna di essere incluso nel gruppo di lavoro che avrebbe studiato quanto accaduto a Sant’Anna di Stazzema. Seppur con molti limiti teorici e pratici ( mi fu difficile calarmi da subito nel ruolo di ricercatore “ufficiale”) per vari motivi, essere subito messo di fronte al campo e alle sue insidie fu importante per la mia formazione. Da quella ricerca la memoria e il suo tramandarsi sono diventati uno dei focus delle mie ricerche. Da Sant’Anna di Stazzema sono passato a studiare quanto accaduto in Bosnia e soprattutto a Srebrenica , iniziando un lavoro che ancora non posso dire concluso che anzi si arricchisce sempre di nuovi scenari e campi di ricerca. Un altro focus delle mie ricerche è il turismo e i suoi mali. Sia a Capo Verde che a Maiorca dove ho vissuto per vari mesi negli ultimi 6 anni, ho approfondito le tematiche riguardanti l’impatto del “fenomeno turismo” su alcune piccole località. Anche in questo caso comunque si finiva per affrontare tematiche legate alla memoria e alla violenza, anche se in questo caso spesso si trattava di violenza sui luoghi e sulla cultura, e purtroppo in alcuni casi anche sull’uomo. La memoria e la tradizione da tramandare, salvare, reinventare, versus il “turismo idiota”.
Come reagiscono le persone – comprese quelle con cui eventualmente lavori – al tuo essere antropologo/a?
In genere è di sorpresa e curiosità, anche perché in Italia ancora non si è ben capito cosa fa un antropologo ( ma mi chiedo: noi antropologi l’abbiamo poi capito?) .
Così spesso mi chiedono se mi occupo di scavi o di teschi. Capita a molti di confondermi con un archeologo, o un antropologo forense. Spesso neanche spiegando che in realtà mi occupo di cambiamenti culturali e sociali riesco a far comprendere cosa faccio in realtà. Penso che dopo un po’ la reazione sia o di interesse, quasi come se fossi una specie di santone o bizzarro sciamano, o di “disprezzo”, nel senso che finisco per essere ricompreso in una serie di figure pressoché inutili per la società come il sociologo, l’antropologo appunto o il cartomante. Però in genere devo dire dopo un po’ vengo considerato una sorta di tuttologo delle scienze “astruse”. Ogni volta che qualcuno non riesce a comprendere un fenomeno scientifico o culturale ecco arrivare la fatidica richiesta: “ Tu che sei antropologo …” che è come dire “tuttologo”.
In che modo le tue competenze antropologiche costituiscono una risorsa, nel tuo lavoro?
Nel mio lavoro ufficiale (faccio outing, per chi non lo sapesse lavoro nella Polizia Locale di una grande città capitale di un grande Paese) mi è servito in passato per leggere in modo diverso dagli altri miei colleghi situazioni complesse che ci siamo trovati ad affrontare. In caso di interventi nei casi di marginalità ad esempio, la mia preparazione e la mia “sensibilità” hanno rappresentato un valore aggiunto. Per il resto della mia variegata attività, diciamo che ogni tipo di produzione sia essa musicale, poetica o narrativa ha una base “antropologica”.
E, invece, un ostacolo?
Un ostacolo non direi. Ma è chiaro che in alcuni casi proprio la difficoltà di definirci come antropologi porta ad una serie di malintesi e fraintendimenti sul ruolo e sulle competenze. Ma in generale, in effetti, non è stata mai un ostacolo. Forse può essere indirettamente un ostacolo a livello personale ed emozionale, perché rendendoti più sensibile a determinati processi e situazioni, ti porta a vivere le cose con più intensità esponendoti al rischio di sentire con maggiore intensità disagio e dolore per alcune vicende legate all’umana vita.
Come ti vedi tra dieci anni? E no, ci dispiace, non possiamo offrirti da bere per consolarti.
Essendo arrivato senza comprendere come, “nel mezzo del cammin di mia vita”, preferisco guardare al presente anche se … l’idea del chiringuito su una delle spiagge di Capo Verde mi tenta sempre in effetti. Potrei ritirami lì e ormai grande antropologo, scrivere piccoli furbi libretti di 60-80 pagine su cose più astratte possibili, tanto basterebbe il nome. Dite che qualcuno potrebbe essersi offeso?
Se vai ti veniamo a trovare! Grazie per la pazienza!
Grazie a voi , se non ci foste bisognerebbe inventarvi !!!