Di Nicoletta Landi e Valentina Rizzo
“Non di dinosauri, non di stelle,
ma…
di antropologia…che?!!”
Miriam Castaldo di ANPIA, ci racconta la sua esperienza dopo il fascino per l’antropologia l’inquadramento professionale nel SSN.
Quando hai scoperto l’esistenza dell’antropologia?
Allora vediamo un po’… un mito di fondazione autoprodotto prevede questa scoperta verso gli 11 anni nella lettura di un libro di Holly Hobbie alle prese con l’antico Egitto; in realtà credo che la mia eroina personificasse un’archeologa, ma più delle dovute differenze disciplinari ricordo solo la fascinazione e lo stordimento sentito per la ricerca di quella che allora mi è apparsa come un’alterità assoluta. All’antropologia propriamente detta mi sono invece avvicinata all’università. Iscritta al primo anno di lingue orientali sono “inciampata” in un esame di antropologia culturale ed è stato amore a prima vista, di quello inebriante e assoluto, monolitico. Di quello truffaldino, che sembra spezzarti il cuore…non è poi stato così, ma ne aveva tutti i presupposti. Nel senso che non mi ha spezzato il cuore, ma per essere amore…lo era e lo è.
La tua famiglia ha cercato di farti cambiare idea? Avrebbero preferito iniziassi una carriera da gangster piuttosto?
No, nessuno ci ha mai provato a farmi cambiare idea, penso perché nessuno avesse capito in realtà di cosa si trattasse; la comprensione relativa e anche la condivisione sono arrivate molti anni dopo, direi addirittura durante il dottorato di ricerca.
Quando hai iniziato a interessarti e/o ad occuparti di uno specifico ambito di ricerca/lavoro?
Sempre all’università mi sono avvicinata timidamente all’antropologia medica, specializzazione dai confini molto meno strutturati di quello che l’altisonante accostamento medico può far credere. Ricordo un corso monografico e il primo libro che mi è passato per le mani di Tobie Nathan “La follia degli altri” con una bella introduzione di Mariella Pandolfi. No, non avrei potuto fare altro “da grande”. A quel punto ho sentito la vocazione, i campanellini, il profumo di ciclamino (addirittura). Pochi anni dopo ho infatti più seriamente maturato la possibilità di un dottorato di ricerca per approfondire queste passioni e così è stato, in Messico ho cercato e ho colto a piene mani questa possibilità. Qui ho fatto ricerca per circa 7 anni presso L’Instituto de Investigaciones Antropológicas dell’UNAM, e mi sono interamente dedicata agli studi dell’antropologia medica e dell’etnopsichiatria più o meno critica. Oggi sono riuscita a farne un lavoro a Roma, nell’Istituto Nazionale salute Migrazioni e Povertà.
Come reagiscono le persone – comprese quelle con cui eventualmente lavori – al tuo essere antropologa?
Le persone… eh le persone reagiscono in modo decisamente eterogeneo, ma sempre interessante, talvolta bizzarro. C’è ancora chi mi chiede se scavo, se ho trovato dei reperti in chissà quale zona del mondo; mi è stato chiesto che tipo di ossa umane analizzassi, addirittura se avessi mai fatto delle autopsie . Ma con il tempo ho imparato che il vero “pericolo”, soprattutto in ambito lavorativo, proviene da chi mi dice.. “Ah, ma davvero, IO ADORO l’antropologia!”. Questo tipo di affermazioni in genere sono arrivate da chi rivestiva ruoli e deteneva poteri ben determinati contrattualmente, di solito dirigenti e responsabili delle mie attività, che non reputavano pensabile, e dunque neanche dicibile, poter dire di non conoscere ciò di cui io stessi parlando. Probabilmente al di fuori del lavoro, non considerando chi mi dice “antropo che?”, mi si è sovente chiesto con quali culture lavorassi, con quale razze, spesso, o i più illuminati con quali etnie. Comunque sia, l’approccio del tutto culturalista è quello che generalmente ci si aspetta da me e l’occhio sgranato, il sopracciglio alzato, il sorriso a 54 denti sono di solito le reazioni più comuni. Ah dimenticavo… l’abbigliamento! Elenco e condivido dei commenti che negli anni mi sono stati fatti: “ma come ti metti i tacchi, ma non sei antropologa? Bevi così poco? Ma che antropologa sei! Non sei mai stata in (qualsiasi paese del mondo) ma allora che antropologia hai fatto?”
Chiudo con il commento di un antropologo sociale nel 2008 in Messico: “Non hai figli? Non vuoi Farne? Ma sei antropologa! Non ci tieni alla specie?”.
In che modo le tue competenze antropologiche costituiscono una risorsa, nel tuo lavoro?
Il mio lavoro è propriamente basato sulle competenze antropologiche, nel senso che contrattualmente faccio l’antropologa in sanità, più precisamente sono un tecnico antropologo inquadrato nel comparto del SSN. Questo lo dico perché ci si aspetta che io faccia esattamente il mio lavoro. C’è stato un momento in cui nel mio ambito lavorativo le competenze antropologiche si sono dovute definire e rivendicare, mentre altre, spesso difficilmente condivisibili e traducibili in prassi, come il saper e poter leggere criticamente il contesto in cui si opera, il comprendere le strategie messe in atto, i rapporti e i livelli di potere, così come capire l’assoggettamento agìto da un lato sui dipendenti, dall’altro dal personale sui pazienti, ecco questo, solo per nominare alcuni strumenti, mi sono di grande aiuto quotidianamente e hanno importanti ricadute sia su di me, sia sulle persone con cui interagisco e per le quali collaboro a processi di cura.
E, invece, un ostacolo?
No, nessun ostacolo, al contrario.
Come ti vedi tra dieci anni? E no, ci dispiace, non possiamo offrirti da bere per consolarti.
Ah caspita, se non mi offrite niente mi taccio!
Grazie!
L’introduzione a La follia degli altri era di Mariella Pandolfi.
Non di Stefania Pandolfo.
Una bella differenza