L’agire sociale degli oggetti: un dialogo tra designer e antropologia. Di Germana Chiusano
Il rapporto uomo e oggetto
L’uomo, per eccellenza l’essere del desiderio e del bisogno, da sempre ambisce a possedere e a circondarsi di oggetti, cose, prodotti: li progetta, produce, usa, getta e ricompera. Gli oggetti sono, infatti, connaturati alla dimensione umana poiché ci conviviamo fin dalla preistoria. Ci lega ad essi un rapporto atavico, in bilico tra una dimensione materiale ed una immateriale, che oggi è profondamente mutato.
All’interno del dibattito sugli studi di cultura materiale, la cui base teorica è “una visione non materialista della materialità” (Dei, Meloni 2015: 55) poiché questa non è solo un dato oggettivo ma legata alla cultura e alla storia, l’antropologia riconosce agli oggetti un “ruolo sociale” (Douglas, Isherwood 1984).
Con gli oggetti, concepiti non solo come meri prodotti dell’attività umana ma come dispositivi che influenzano le dinamiche sociali, ci interagiamo quotidianamente, costruiamo nel tempo delle relazioni capaci di restituire, anche narrativamente, parti delle nostre esperienze di vita; ed così che le “cose” finiscono per assumere una grande responsabilità: quella di rappresentarci. Le riflessioni che seguono propongono di far dialogare le idee e i pensieri di alcuni antropologici con le voci e le storie che alcuni esponenti del mondo della cultura del progetto hanno attribuito agli oggetti.
Il punto di partenza è uno sguardo incrociato tra Antropologia e Design da cui ha preso forma in tempi abbastanza recenti, quantomeno in ambito italiano, una prospettiva accademica emergente, quella del Design Anthropology. Un campo disciplinare per certi versi inedito, che si propone come strumento di comprensione della realtà sociale in grado di influenzare le pratiche di progettazione e di uso degli oggetti.
La nostra realtà, tuttavia, si è gradualmente adeguata ad una presenza ingombrate ed eccessiva di cose, gli ambientalisti direbbero soffocante, di cui non ne riconosciamo più il senso né l’utilità. Deyan Sudjic, uno dei massimi riferimenti nel mondo del Design, rivolgendosi ad “un mondo che annega negli oggetti” (2015:12) afferma:
Il nostro rapporto con quel che possediamo non è mai lineare. È un complicato miscuglio di consapevolezza e innocenza […] Gli oggetti costituiscono il modo in cui misuriamo il passare della nostra vita. Sono ciò mediante cui ci definiamo, per segnalare chi eravamo o non eravamo. Il design è diventato il linguaggio con cui diamo forma agli oggetti e con cui modelliamo i messaggi che essi portano con sé. Dunque, Il ruolo del designer non è solo quello di risolvere problemi formali e funzionali ma è quello del narratore.
In altre parole, non si tratta solo di ideare e produrre oggetti, ma di saper ascoltare, attraverso una prospettiva antropologica, la dimensione più sensibile e sottile della percezione umana, ovvero i messaggi invisibili e indiretti che le cose sono in grado di esprimere. Sunsilmassi (2010: 36) scrive:
Se è vero che negli ultimi vent’anni […] abbiamo riempito le nostre case e le nostre vite di oggetti più o meno utili, è altrettanto vero che questa imponente presenza è diventata una chiave di lettura fondamentale per il mondo di oggi, il linguaggio della cultura di massa; quindi, saper leggere gli oggetti per comprendere meglio l’universo nel quale ci muoviamo.
Gli oggetti sono indiscutibilmente legati alla sfera umana perché pensati, creati e prodotti dall’uomo stesso. La relazione che l’uomo intrattiene con la materia è determinata dalla sua natura culturale e sociale, ma anche dalle sue pulsioni, dall’urgenza che incessantemente lo spinge a possedere. Dal momento in cui viene al mondo l’uomo ambisce ad affermarsi socialmente, emotivamente e materialmente: si circonda di cose che consacrano la sua esistenza nella dimensione fisica. Il suo anelare è un processo costante da cui deriva un’inesauribile catena di bisogni da cui difficilmente riesce affrancarsi. Fin dall’antichità, infatti, abbiamo investito gli oggetti – la materia – di molteplici significati: fisici, sacri, economici, funzionali, immateriali, simbolici, etc.
L’archeologo Leroi-Gourhan (1977) sottolinea come vi sia una stretta relazione tra la cultura e l’evoluzione fisica. Le sue ricerche mettono in evidenza come, da un punto di vista storico, gli oggetti culturali si trovino inseriti in un sistema relazionale duale, tra pensiero e azione: proprio a partire dal primo processo di ominazione l’uomo, assumendo gradualmente la posizione eretta, libera le mani e sviluppa le facoltà intellettive con cui crea manufatti. L’evoluzione culturale, dunque, è storicamente intrecciata ad un costante confronto con la materialità che ha preso forma in un ambiente sociale in cui creazione e manipolazione di utensili sono fortemente connesse.
Se nell’antichità gli oggetti assumevano una valenza principalmente simbolico-rappresentativa come il sumballo dell’antica Grecia, o i feticci e i tòtem delle società tradizionali; nella contemporaneità questo valore si è progressivamente trasformato fino ad essere assorbito a logiche di produzione di massa, a insaziabili norme di consumo che lo allontanano dalla sua originaria vocazione. Gli oggetti sono sempre più sottilmente ricondotti al profitto e concettualmente assimilabili all’idea di merce, di progresso e di produzione in serie.
Le sfide del Design anthropology
Nonostante queste premesse alcuni filoni di studi di antropologia culturale gettano nuova luce sulla concezione dell’oggetto nella contemporaneità, suggerendo come questo sia in realtà tutt’altro che materia inerte: le società, infatti, compiono continuamente “operazioni di risemantizzazione e risignificazione degli oggetti attraverso sistemi relazionali culturalmente riconosciuti” (Favole 2015: 20).
Da un punto di vista storico tutte le culture in principio hanno sviluppato con gli oggetti una dimensione relazionale che potremmo definire ambivalente: una parte materiale ed una immateriale a cui si è aggiunta nel tempo una terza dimensione, quella spaziale; ovvero l’ambiente che li circonda, li accoglie e in cui essi agiscono. Ma in un mondo che si dimostra sempre più fluido, interconnesso e globalizzato il rapporto tra uomini, cose e ambiente è divenuto sempre più articolato e, destrutturandosi, anche instabile. A questo proposito Favole (2015: 20) afferma:
È un po’ come se in un mondo orfano di grandi narrazioni, le persone fossero chiamate a costruire orizzonti di significato a partire dalla scelta, dalla disposizione, dalla conservazione di “oggetti densi”, che rimandano, con la loro tangibilità, a esperienze e incontri.
Il sociologo Z. Bauman nella sua opera Modernità liquida afferma che il fattore di indeterminatezza che ha colpito la società moderna è dipeso proprio dalla modificazione dei suoi soggetti che da produttori si sono fatti consumatori. In altre parole, si è attivato un processo di “fluidificazione” in cui sono venute a mancare le cornici di senso, i confini identitari a cui gli oggetti non fanno da sfondo ma da sostanza del fenomeno.
In tal senso il Design anthropology, come nuova disciplina trasversale, consente di riassegnare quei confini identitari attraverso un processo progettuale consapevole. Quest’operazione si rivela indispensabile a rileggere la complessità del contesto socioculturale in virtù di una nuova riattribuzione valoriale e di una disponibilità naturale degli oggetti a raccontarsi. Infatti, se è vero che il design nella sua plurifunzionalità dà forma all’immaginario, progetta le forme della cultura materiale, interpreta desideri e comportamenti; dall’altra è anche vero che qualunque oggetto di design è esito di un pensiero e di un’idea che mette al centro la dimensione umana attraverso una pratica tangibile (Gunn, Otto, Smith 2013).
Tunstall, antropologa del design, definisce il Design anthropology lo studio di come il design traduce i valori umani in esperienze tangibili (Tunstall 2013). Si tratta in sostanza di un metodo di ricerca aperto e critico, partecipativo e riflessivo che attraverso strumenti e posture cerca di capire come intervenire sulla realtà sociale, come generare cambiamenti possibili attraverso le potenzialità dello strumento etnografico. L’attività di ricerca empirica, infatti, assurge a dispositivo trasformativo in grado di far dialogare il sapere con il fare, l’esperienza riflessiva e analitica con la pratica concreta.
Parte delle investigazioni che il Design anthropology ha dedicato allo studio della materia si sono concentrate proprio sul chiedersi per quale ragione le cose siano così importanti. Una chiave di lettura utile a capire, al di là della mera funzione utilitaristica, viene suggerita dalle riflessioni di alcuni esponenti di studi di cultura materiale che hanno alimentato un dibattito che vede riconoscere alle cose “un’autonoma personalità “e una “biografia culturale” (Kopytoff 2005) animata da una “vita sociale” (Appadurai 1986). Secondo questa visione le cose intervengono nelle relazioni umane, sono in grado di influenzare le scelte e i modelli di comportamento dell’uomo, ne condizionano addirittura i movimenti del corpo. Favole si spinge a ritenere che gli oggetti posseggano una sorta di anima attraverso cui comunicano e trasmettono un valore affettivo (2015). Queste considerazioni si riallacciano alla teoria del processo di oggettivazione di Daniel Miller, uno dei massimi esperti di cultura materiale, che ha teorizzato un’idea di stampo filosofico secondo cui gli oggetti all’interno delle manifestazioni sociali operano come soggetti poiché concorrono alla produzione della realtà: attraverso la loro presenza possono trasformare il sistema delle interazioni umane, il loro valore e il loro significato. A questo proposito scrive: “Più riusciamo a interpretare e capire gli oggetti che appartengono a una persona, più arriveremo alla conoscenza di chi quegli oggetti li ha comprati, li ha fatti suoi e abitano nella sua casa” (2013: 6). Dunque, oggetto e soggetto – materia e cultura – non sono entità separabili, rappresentano due polarità che si definiscono vicendevolmente all’interno del processo storico. Sono gli oggetti a creare noi nella misura in cui noi creiamo gli oggetti per mezzo di processi di socializzazione reciproca. Per rafforzare quest’idea Miller si rifà alla teoria dei frames di Goffman (1975) e Gombric (1979) secondo cui il frame costituisce la “cornice di senso” all’interno della quale si svolge l’azione e in cui agisce l’oggetto. Gli oggetti materiali creano il contesto e ci rendono consapevoli di come è meglio muoverci. La teoria del frame suggerisce a Miller un’altra intuizione, l’umiltà degli oggetti: essi acquisiscono tanta più forza di significato quanto più sono invisibili, meno li notiamo più sono incisivi nel determinare i nostri comportamenti. Producendo il contesto in cui operiamo ci riconsegnano la consapevolezza di quello che è più adeguato fare e ci suggeriscono la cornice di senso in cui agire. In altre parole, gli oggetti pur costituendo qualcosa di solido e tangibile hanno il potere invisibile di condurci a comportarci in modo adeguato attraverso la cornice di significato che costruiscono con la loro presenza. Non è tanto la loro solidità e concretezza a determinare l’azione nella relazione quanto la loro famigliarità, il nostro riconoscerli in modo inconsapevole (Miller 2013).
Sugli spunti antropologici di Miller si innesta il pensiero di D. Norman, psicologo e ricercatore americano, che si concentra sulla componente emotiva degli oggetti spiegando perché questa sia così decisiva nell’affermare il successo di un oggetto (Norman 2004: 8).
Le emozioni ci rendono più intelligenti perché la felicità facilita il pensiero creativo […] gli oggetti attraenti funzionano meglio perché la loro gradevolezza produce emozioni positive, rende i processi mentali più creativi, più tolleranti in caso di difficoltà marginali.
Norman riconosce agli uomini una predisposizione ad “antropomorfizzare” gli oggetti, cioè a proiettare su di essi sentimenti e significati, emozioni ed opinioni per mezzo dell’azione congiunta di un sistema emotivo con un sistema cognitivo, dove l’emozione rappresenta l’elemento qualificante dell’esperienza cognitiva complessiva. Il suo suggerimento rispetto alla progettazione di un oggetto è, quindi, di “caricarlo umanamente” in modo consapevole al fine di generare riconoscimento e piacere nel suo utilizzo.
Nel suo testo Emotional design esamina il rapporto tra il sistema emotivo (affettivo) – che agisce in modo indipendente dal pensiero e ci permette di dare giudizi e di operare una scelta immediata – e il sistema cognitivo che interpreta e fornisce un senso e un significato al mondo che ci circonda. Ciò che, però, diventa fondamentale è che nella vita quotidiana necessitiamo di entrambi.
In particolare, l’emozione è la componente fondamentale della nostra quotidianità perché influisce sul modo in cui pensiamo, sentiamo e percepiamo la realtà. Conferisce una spinta determinante alla nostra capacità di prendere decisioni ed interviene nel modo in cui la mente affronta e cerca soluzioni ai problemi. Dunque, il sistema emozionale modifica le modalità operative del pensiero, ossia del sistema cognitivo. Per rendere più concreta e comprensibile quest’idea Norman racconta delle sue tre teiere (2004: 1-2):
Possiedo una collezione di teiere. Una è del tutto inutilizzabile, il manico si trova sullo stesso lato del beccuccio. Fu inventata dall’artista francese J. Carelman, che la definì una “caffettiera per masochisti” […] La seconda si chiama Nanna, e la sua originale conformazione tozza e paffuta risulta sorprendentemente attraente. La terza è una teiera “inclinata”, complicata ma pratica […] Quali di queste teiere uso abitualmente? Nessuna delle tre […] Perché sono così attaccato alle mie teiere? Perché le tengo in bella vista? Anche quando non vengono usate, sono lì, visibili. Apprezzo le mie teiere non solo per la loro funzione, ma perché sono opere d’arte. Amo starmene davanti alla finestra, a confrontare le forme contrastanti, a osservare il gioco di luce sulle varie superfici. Quando intrattengo degli ospiti o se ho un po’ di tempo libero, preparo il tè nella teiera Nanna, perché mi affascina, o in quella inclinata, per la sua efficienza. Considero importante il design, ma la scelta dipende dall’occasione, dal contesto e soprattutto dal mio stato d’animo. Questi oggetti rappresentano qualcosa di più della loro funzione pratica […] ognuno di loro riflette un significato personale: ciascuno vanta una propria storia. Uno rispecchia il mio passato, la mia crociata contro gli oggetti impossibili da usare. Un altro riflette il mio futuro, la mia campagna per la bellezza. E il terzo rappresenta un incantevole miscuglio tra fascino e funzionalità.
Il racconto delle tre teiere costituisce l’occasione narrativa attraverso cui mettere in luce non solo le componenti principali a cui, secondo Norman, un oggetto di design dovrebbe rispondere – usabilità, esteticità e praticità – ma suggerisce anche di prestare particolare cura alla qualità emotiva che gli oggetti trasmettono grazie alle modalità con cui vengono studiati, e da cui può dipendere riconoscimento e riuscita commerciale. È in virtù di questa componente che gli oggetti riescono non solo a relazionarsi con gli esseri umani, ma anche a farsi portavoce delle loro storie. Gli studi di Norman suggeriscono che da una parte le emozioni conferiscono capacità narrativa agli oggetti, e dall’altra danno sostanza e stabilità alle relazioni umane.
Anche il design si è occupato di capire la relazione che tiene uniti gli esseri umani agli oggetti. In particolare, alcuni suoi esponenti si sono confrontati con la necessità di rimettere al centro della pratica progettuale una visione sempre più “umanistica”, intessendo un dialogo, troppo a lungo assente, tra antropologia e design indispensabile a restituire consistenza e verità a quelle idee progettuali.
Il bisogno di riempire un vuoto narrativo progettualmente taciuto accanto all’urgenza di rompere con i canoni artistici del passato, ha spinto in particolare due designer, Andrea Branzi e Alessandro Mendini, ad aprirsi verso territori progettuali più antropologici per portare il design ad occuparsi di quei grandi temi costitutivi dell’esistenza umana che erano il cuore delle loro indagini: la vita, la psiche, il divino, la poesia, la morte.
Andrea Branzi e il design radicale
Andrea Branzi, architetto e designer noto per il suo impegno intellettuale al limite del concettuale, figura carismatica e poliedrica del panorama culturale internazionale, è considerato uno dei maggiori esponenti del design neomoderno. Definito come “Colui che legge le tracce, il più delle volte colpevolmente inascoltate, della pulsione antropologica soggiacente alla cultura del progetto” (Zappa 2016), ha da sempre nutrito e mantenuto viva una visione dichiaratamente umanistica per la quale individuava come vitali quelle “piattaforme antropologiche” con cui responsabilizzare i designer (Branzi, Linke, Rabottini 2013: 40).
Il suo pensiero creativo e mai ordinario, attento a problematizzare le grandi narrazioni che hanno animato le vicende umane, era mosso da una non consueta convinzione nella pura sperimentazione come espressione di massima libertà. La spinta delle sue idee, sempre alla ricerca di un’origine e una radice di senso, era guidata e sostenuta da un bilanciato equilibrio tra ricerca pratica, studio della tecnica e ragionamento teorico puro.
Erano gli anni ’60 guidati dai principi di funzionalità, razionalità e tecnologia. A quei tempi in cui si ignorava il problema del consumo e tutto era improntato alla produzione industriale in serie, Branzi, uscendo volutamente da quegli schemi, mette in discussione quei valori per lui superati. Descrive il processo evolutivo di quegli anni come il passaggio da “una civiltà architettonica che identificava nell’atto costruttivo il valore storico, ad una civiltà merceologica caratterizzata da flussi di merci, informazioni e servizi […] che per loro natura sono delle realtà senza territorio, diffuse e trasferibili” (Onniboni 2016). Una posizione complessa proprio perché legata ad una visione molto immateriale dell’esistenza umana che prende forma a partire dall’allora nascente Movimento radicale(2). Il Radical Design ebbe inizio sulla scia delle lotte politiche e delle contestazioni studentesche del ’68, in opposizione ai principi che animavano il Razionalismo. I progetti, eccentrici e controcorrente, furono innovativi anche nella loro forma originaria e sostanziale.
I primi gruppi radical avevano intuito le potenzialità comunicative della civiltà merceologica: proprio in quegli anni, infatti, nasce la pop art come espressione di quelle pratiche e idee di mercato, di consumo e di merce. Nel tentativo di rispondere a certi vuoti narrativi e di riallineare il focus concettuale sulla dimensione umanistica del progetto, Branzi riafferma l’idea che sia responsabilità del designer andare al di là delle logiche di mercato e di consumo, per preoccuparsi di quelle “piattaforme antropologiche” della società, ossia dei dilemmi culturali che oggi la definiscono e la affliggono al tempo stesso. Nel mutato rapporto di ordine e significato tra oggetti e uomini l’importanza della qualità emotiva, e qui tornano in mente i ragionamenti di Norman sul sistema affettivo, si assottiglia sempre di più; sulla qualità transitoria dell’oggetto spiega (Branzi, Cattaneo 2020: 87):
La felicità che produce è in qualche sorta effimera perché cerca di garantire una stabilità emotiva immediata basata sull’acquisto incontrollato di beni di consumo, rischiando in questo modo di scavalcare tutta quella dimensione antropologica che porta a riflettere e considerare la dimensione del sacro, spirituale, religiosa della vita, a cui non si può dare una risposta commerciale e a cui inevitabilmente la cultura del progetto si rivolge.
Gli oggetti diventano metafora del mondo, interpreti di una cultura e di una società in continuo divenire; ne raccontano le vicende rivelandone la loro natura misterica: “Gli oggetti possiedono un’anima e dialogano con l’uomo che […] li chiama a testimoni dei giuramenti e dei tradimenti d’amore. Gli oggetti portano fortuna, allontanano i dardi del fato e recitano la loro parte nella vita”(3).
Nelle sue opere, sintesi tra tecnologia e poesia, tra mondo industriale e natura, prende forma la riflessione sugli “oggetti apparentemente inutili” (Arrighi 2018). Opere fondative, simboliche ed essenziali per l’esistenza umana, spiegano come nell’atto creativo si celino costruzione identitaria, strutturazione culturale, rivelazione spirituale e relazione con il divino.
Le collezioni di Branzi, in bilico tra simbolismo e realismo, raccontano uno stato impermanente dell’essere, invitano alla precisione di significato, alla sensibilità della forma, ad un orizzonte poetico che dà spazio alla comunicazione visiva, alla decorazione e all’emozione. Nella Collezione Animali domestici, ad esempio, gli oggetti, che non smarriscono mai la loro funzione, spezzano il valore autoreferenziale del design: una serie di sedute che dialogando tra loro creano un piccolo mondo a sé stante da cui affiora la relazione atavica tra uomo e natura. Ne emerge un legame affettivo circolare tra uomo, oggetti e spazio domestico. Frammenti di natura unici che respingono il concetto di omologazione attraverso un linguaggio primitivo ed esclusivo, che si costituiscono come elementi dal valore quasi sacrale. Rappresentano una crasi necessaria ed inevitabile tra “passato e presente, tra archetipo e riproduzione, tra natura e uomo” (Colaci 2020)(4).
Nella Collezione Epigrammi, invece, si dà forma al concetto di amnesia attraverso la creazione di piccoli oggetti anonimi che narrano a singhiozzo vicende umane in cui tutti possono riconoscersi. Sono brevissimi “racconti progettuali”, discontinui e sospesi, che provengono dal vuoto di memoria, ed è con questa assenza che si confrontano: frammenti di storie di vita che si interrompono di continuo e che fanno riferimento a personaggi di cui è andata perduta l’identità (Branzi, Linke, Rabottini 2013: 48):
Io sono molto più interessato a ciò che abbiamo dimenticato che a ciò che ricordiamo […] La condizione dell’artista e dell’intellettuale è l’amnesia, in quanto è possibile creare solo con la volontà di ripartire, tutte le volte, da zero. […] Viviamo un tempo che non è più lineare ma circolare, dove il presente, il passato e il futuro non sono più distinguibili tra loro.
Un’altra collezione dal carattere esistenziale è la Collezione Dolmen in cui Branzi investiga la condizione sociale dell’uomo contemporaneo nella sua estensione più radicale e conflittuale.
Si tratta di un’installazione molto evocativa sul senso della repressione sociale: piccole figure umane catturate nell’essenza della loro esistenza, prosciugate dai dettagli e restituite nella loro semplicità e solitudine. Ripiegate su sé stesse, impaurite e isolate, vivono simbolicamente in una scatola di plexiglass. Sembrano in bilico tra l’incertezza e l’istinto. Questo esperimento, che parte da una sperimentazione molto concettuale, fa riflettere sul tormentato scollamento relazionale tra uomo, oggetti, città e collettività.
Se la trasformazione dell’uomo è un continuo fluire, quest’opera suggerisce di ripensare in termini visuali tale condizione a partire dalle società megalitiche, dalla loro origine misteriosa e magica, percepita come antica dimensione esistenziale a cui tendere e tornare per sopperire alla pressione sociale. Lo sguardo antropologico si espande metaforicamente attraverso il potere sacro dei sassi megalitici che sovrastano le loro teste e che parte dall’ipotesi della reversibilità̀ della legge di Darwin: il ritorno dell’uomo contemporaneo alla sua atavica condizione animale come massima espressione di modernità e di libertà. Infine, la monumentale Collezione Grandi legni, quella più meta-razionale, che sacralizza una nuova espressione di design che dialoga con l’arte e in cui l’oggetto diventa “ologramma di un tutto antropologico”(5). Nasce dall’idea di contaminare e ibridare forme e significati: tra la magia e il rito, la rappresentazione onirica, il sublime e l’ordinario, Branzi progetta strutture misteriose che rievocano un linguaggio primordiale in cui l’essere umano cerca di costruire un dialogo con la natura, l’ambiente, il tempo e la spiritualità (Silva, 2009: 12):
Lo spazio della relazione fra uomo e oggetti è una relazione opaca, non tutto è alla luce del sole. La cultura del progetto ha perduto questa capacità carismatica […] sono gli oggetti a farsi carico di questa testimonianza con la loro funzione sciamanica di connettere la realtà quotidiana con una dimensione più profonda e inesplorata.
Un progetto visionario tra istallazione architettonica e opera d’arte alla ricerca delle radici animiste e ancestrali dell’uomo. Per mezzo del legno riporta l’oggetto ad una dimensione quotidiana e ugualmente mistica: le grandi travi interpretano metaforicamente il peso e il carico della memoria, ma anche le fondamenta su cui si sono sviluppate tutte le civiltà. Ricordano dei totem spirituali: «Prendono parte allo spettacolo della vita e hanno un ruolo nella trama. Sono in parte strumenti e in parte oggetti di scena, in parte mezzi e in parte racconti» (Silva 2019).
Alessandro Mendini
Alessandro Mendini, architetto e designer di spicco nel panorama italiano e internazionale, mente brillante e originale, è stato un progettista visionario, un teorico ecclettico, un promotore dell’innovazione nel suo ripensare radicalmente l’idea di progetto e di oggetto. Rinnova codici espressivi e formula nuove teorie attraverso una revisione linguistica e visuale sempre orientata alla valorizzazione e all’esplorazione del senso antropologico del design. Come Branzi aderì alle idee propulsive del Design radicale mettendo in discussione le regole della tradizione del Moderno, e rafforzando la relazione tra arte e design, quasi assottigliandone il confine, per dare vita e nuova linfa alla figura del designer-artista. Gli stilemi della Pop art e delle avanguardie artistiche, in cui riecheggiano richiami al Futurismo, Dadaismo e Surrealismo, fanno da sfondo a questa nascente corrente espressiva, e aprono a nuovi alfabeti visivi , ad una forza creativa che rompe con il passato. Le ispirazioni concettuali di cui si nutre la mente inquieta e produttiva di Mendini sono mosse dalla volontà di caricare gli oggetti di significati inediti e provocatori; di rivendicare una creatività dissonante, fuori dagli stilemi del Funzionalismo, per affrancare l’uomo dalle costrizioni della tradizione. Il risultato è la produzione non seriale di pezzi unici ed esclusivi, in antitesi con i costrutti del Razionalismo.