La pandemia si insinua nelle crepe di democrazie e sistemi capitalistici già fragili
La pandemia si insinua nelle crepe di democrazie e sistemi capitalistici già fragili e delegittimati da composizioni politiche tendenti o al populismo destrorso, o a movimenti dal basso più o meno progressisti ma senza un’agenda politica di fondo. Il Covid sgretola le famiglie nucleari, l’idea di amore romantico e di relazioni umane in senso lato: ci si sente schizofrenici di fronte ad un’intimità protratta e forzata con chi abbiamo scelto di dividere il tetto e, al contempo, una rarefazione ed isolamento da tutto ciò che potrebbe darci una parvenza o una reale fonte di calore umano. Da antropologi e scienziati sociali, siamo in attesa di metamorfosi e di cambiamenti epocali per come vediamo il nostro sistema mondo oggi: così come ci sono i germi per una forma di coercizione ed intrusione in quella che Agamben chiamerebbe “nuda vita,” si ha inevitabilmente un momento di ridefinizione e di ridiscussione di quanto prodotto dalla società tardo-capitalista. In tale situazione liminale degna di un van Gennep, si ripensa anche alle logiche degli stati-nazione e delle dinamiche geopolitiche del pianeta. Questo è evidente se ci si cala, etnograficamente parlando, nel contesto nel quale mi trovo a vivere da poco più di un anno: Taiwan.
“Isola che non c’è,” come è stata definita da Gabriele Battaglia in un articolo firmato per Internazionale e in podcast della sua serie “Il cielo sopra a Pechino,” Taiwan viene spesso confusa come Cina continentale. In realtà, Taiwan, a differenza della Repubblica Popolare Cinese, è una Repubblica di Cina, costituitasi come tale per mantenere una certa autonomia da Pechino, in particolare come repubblica presidenziale: il riferimento alla democrazia è, infatti, gelosamente enfatizzato dagli isolani come motivo di bourdiana distinzione da quello che viene (ed effettivamente è) considerato come un regime totalitario. Più volte ho cercato, invano, di correggere parenti e amici sul fatto che Taiwan sia una cosa a sé stante, anche se una dichiarazione del genere ancora oggi getta scompiglio nella popolazione, spaccata pressoché a metà tra chi vorrebbe acquisire l’indipendenza totale dalla Cina e chi, invece, cerca di stringere maggiori alleanze politico-economiche con “la madrepatria.” I taiwanesi, così come si conoscono oggi, sono il risultato di un conflitto tra i migranti dalla Cina di etnia Han parlanti Hokkien e di etnia Hakka—giunti in epoca Qing (1632-1912)—e tribù aborigene, per poi essere stati dominati per un cinquantennio dall’impero giapponese fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Successivamente, le truppe defezioniste di Chiang Kai Shek, fuggite dalla Cina, stabiliranno un regime totalitario che avrà fine soltanto nel 1987 con la fine della legge marziale.
Taiwan è lo specchio deformato della Cina continentale: a dispetto della Rivoluzione Culturale, a Taiwan la regione popolare cinese, il Buddhismo e qualsiasi religione bandita in Cina, come Yi Guan Dao, sono fiorite per occupare un ampio spazio in una società che si vota al classicismo cinese senza sdegnare la modernità e le influenze giapponesi. Una unicità che è stata più volte soffocata dalle ingerenze cinesi che, da un lato, hanno isolato politicamente l’isola escludendola da organizzazioni mondiali come l’OMS, togliendole il riconoscimento delle Nazioni Unite, dall’altro, hanno più volte minacciato l’invasione militare dell’isola se Taiwan si azzardasse a chiedere la piena indipendenza dalla Cina, paventando la soluzione pensata per Hong Kong e miseramente fallita del “un paese due sistemi.” Dal mio centro di ricerca, dove lavoro come post-doc, periodicamente ci si chiede di restare nel nostro studio, mentre fuori si sperimentano gli allarmi antiaerei e le esercitazioni militari. “Sì, per via del nostro nemico…” mi hanno accennato con un sorriso colmo di allusioni le colleghe.
Quando pensiamo alla pandemia Covid a Taiwan, dobbiamo inserire queste dinamiche geopolitiche pregresse nel cercare di spiegare il successo inaspettato nel contenere i contagi da parte del governo di Tsai Yin-Wen: i casi positivi si assestano oggi a 393 con 6 decessi. Considerato il fatto che lo stretto di Taiwan separa l’isola, con una popolazione che corrisponderà più o meno al Nord Italia, dalle coste meridionali della Cina per un paio di centinaia di chilometri, il clima che si respira qui è paradossale. Ci si aspetterebbe infatti una situazione non molto diversa dall’epicentro della pandemia, Wuhan, considerati anche i generosi flussi di taiwanesi che hanno trovato lavoro in mainland o che intrattengono regolari affari con aziende cinesi. La ragione di quello che i mass media hanno definito il miracolo di Taiwan è da ricercare nella geopolitica: proprio in quanto tagliato fuori dall’OMS, dal quale non ha nemmeno ricevuto informazioni sul caso Wuhan per chiara omertà e spalleggiamento della Cina, e sospettoso di qualsiasi informazione trasmessa dai media cinesi, il governo taiwanese ha deciso di adottare una tattica di prevenzione draconiana. Osservatori medici taiwanesi sono andati a studiare il caso Wuhan ancora prima che ricoprisse le prime pagine dei giornali internazionali, cercando di colmare le carenze e le storture di un apparato di informazione, quello cinese, costantemente censurato dal regime di Xi Jin-Ping. Non è infatti una rarità sentire dai miei amici taiwanesi che tutte le informazioni che l’opinione pubblica ha in relazione alla Cina sono derivate da dissidenti cinesi rifugiatisi nell’isola, senza nemmeno prendere in considerazione le fonti ufficiali cinesi, sistematicamente falsate per nascondere crimini umanitari o lesioni della libertà individuale e collettiva.
Il sistema sanitario ha poi attivato le misure anti-Sars che aveva implementato dopo l’epidemia del 2003 che aveva devastato l’isola insieme alla condanna internazionale per l’incapacità del governo di Taipei di impedire una carneficina. Non soltanto gli aerei provenienti dalle aree infette sono stati bloccati tempestivamente, ma le tessere sanitarie, dotate di un micro-chip con tutte le informazioni cliniche del paziente, hanno permesso di tracciare gli spostamenti della popolazione da e verso la Cina per monitorare sintomi sospetti e richiedere la quarantena di 14 giorni. Così è successo ad un post-doc italiano di mia conoscenza che si era trovato a sostare ad Hong Kong per un cambio d’aereo. La produzione di mascherine è stata incentivata fin dall’inizio spingendo l’acceleratore sulle capacità di reperimento dei materiali necessari per la loro lavorazione, disincentivando l’importazione di mascherine dall’estero e creando una propria nicchia di fabbisogno locale (che poi è divenuto anche internazionale, con la donazione di mascherine e materiale medico all’Italia sotto lockdown). I confini con l’estero sono stati poi fermati e dilazionati individuando aree a forte o medio rischio. La conseguenza è che il sistema scolastico e lavorativo non ha subito ritardi o lockdown: a parte la posticipazione del rientro dalle vacanze invernali per gli studenti—per consentire la sanificazione degli edifici e della strumentazione in dotazione—e lo smartworking per i dipendenti di aziende od istituti nei quali si sono registrati almeno due casi di Covid, la produttività continua ad avanzare. Le mascherine sono distribuite gratuitamente e razionate—due al giorno per ciascuna persona—se ci si presenta in farmacia con la tessera sanitaria, mentre le uscite nei locali pubblici sono monitorate dal conteggio della temperatura e l’utilizzo di disinfettanti sui clienti previo l’ingresso nel locale.
Per quanto si resti stupiti dall’efficienza e dalle misure cautelative taiwanesi, non possiamo dimenticarci di uno sguardo antropologicamente critico per analizzare la situazione. Ho letto vari casi di persone quarantenate in cui si raccontava del massiccio controllo della polizia: una volta registrato come positivo, si ricevono giornalmente messaggi in cui si richiede di verificare la propria temperatura e condizioni di salute. Al soggetto positivo viene poi assegnato un micro-chip tracciabile dal sistema GPS per accertarsi che sia effettivamente in casa e non possa recarsi a fare la spesa o altre cose che, invece, in Italia sono consentite previa certificazione. Al tempo stesso, molti migranti venuti a lavorare in nero come, per esempio, badanti—specialmente provenienti dal sud-est asiatico, in particolare dall’Indonesia—sono sprovvisti di tessera sanitaria in quanto non in possesso di un permesso di soggiorno valido, compromettendo così la loro salute, così come quella dei loro datori di lavoro.
Mentre mi aggiro alla stazione centrale di Taipei intorno alle sette di sera, la vista di senzatetto che ricoprono ogni centimetro delle pareti esterne della stazione mi fa pensare che, sì, c’è stata una rivincita di Taiwan sulla Cina e su tutte le nazioni mondiali che non la riconoscono giuridicamente come repubblica, ma la geopolitica e i dati statistici non possono e non potranno rendere conto delle macchie di una democrazia in cui, per esempio, le espropriazioni forzate sono pratica non soltanto diffusa, ma fonte di guadagno e sperequazione.
Fonti
- Chang, Wen-Chen, 21 marzo 2020, “Taiwan’s Fight against COVID-19: Constitutionalism, Laws, and the Global Pandemic,”
- Wong, Ying-da, 9 marzo 2020, “Migrant Workers Struggle to Secure Masks in Taiwan amid COVID-19 Fear,”
- https://verfassungsblog.de/taiwans-fight-against-covid-19-constitutionalism-laws-and-the-global-pandemic/