Articolo di Luisa Ruffa

L’ANTROPOLOGIA DELL’EDUCAZIONE NELLA SCUOLA AMERICANA

L’antropologia dell’educazione  è nata ufficialmente nel 1954 per merito della conferenza di Stanford promossa dall’antropologo statunitense George Spindler. Lo studioso invitò i diversi professionisti presenti, tra cui antropologi, psicologi ed educatori, a collaborare  al fine di creare modelli educativi in grado di superare le difficoltà e le disuguaglianze sociali che caratterizzavano gli Stati Uniti dell’epoca (Spindler, Spindler, 2000, p. 68). Spindler ha dimostrato  con le sue ricerche che il processo educativo promosso nelle scuole degli Stati Uniti rifletteva i conflitti presenti nell’ambiente in cui si trovavano le istituzioni scolastiche e che il principale ruolo degli insegnanti era quello di trasmettere agli alunni la cultura di appartenenza (Callari Galli, 1993, p. 140). A partire da quel momento, gli studi condotti dagli antropologi statunitensi nel corso degli anni Sessanta si sono concentrati  sul rendimento scolastico di gruppi minoritari, soprattutto su studenti appartenenti a minoranze etniche o a classi sociali svantaggiate. Secondo molti di loro, lo scopo della ricerca etnografica, oltre a riflettere su come le incomprensioni tra alunni ed insegnanti dovute alle differenze culturali portassero questi ultimi ad assumere atteggiamenti differenti ed esplicitamente discriminatori nei confronti delle minoranze , era anche quello di trovare una soluzione che favorisse un sistema educativo più inclusivo (Benadusi, 2017, p.85).

EDUCARE ALL’EQUITÀ È DAVVERO POSSIBILE?

Come antropologi  è legittimo chiedersi in che modo le nostre competenze e il nostro lavoro possano favorire la costruzione di un ambiente educativo più equo  Nello specifico, quella collaborazione tra educatori e antropologi a cui Spindler auspicava è  realizzabile nel contesto culturale in cui oggi viviamo? E questa    può realmente apportare dei cambiamenti sociali?

Nel corso dell’anno scolastico 2020/2021 ho preso parte  a differenti progetti di educazione non formale svolti con gruppi di studenti di tre diverse scuole superiori di Torino, grazie alla collaborazione con un’associazione locale. I progetti erano finalizzati a promuovere la parità di genere, ma non solo, in tre istituti diversi e in cui sono stati ottenuti risultati differenti. Il primo istituto era un liceo, in cui i quindici studenti coinvolti erano  cittadini italiani, bianchi, di classe medio-alta, con abiti firmati e il cui sogno era quello di trascorrere un periodo di studio in un istituto negli Stati Uniti per migliorare l’inglese e per “poter un giorno trovare un buon lavoro”, come molti di loro hanno sostenuto  durante le attività.

In uno dei suoi famosi studi sugli istituti scolastici, Bourdieu ha dimostrato  che la classe sociale è  in grado di influenzare le scelte scolastiche dei singoli. La preparazione scolastica fornita dai licei è comunemente considerata più completa rispetto a quella degli istituti, più adatta a coloro che sceglieranno di frequentare l’università. Di conseguenza, ottenere un diploma al liceo conferisce agli studenti uno status sociale più elevato di quello di chi sceglie  altri tipi di formazione (Bourdieu, Passeron, 1972, p.138). Le gerarchie tra istituti finiscono per riprodurre quelle sociali, formando specializzazioni sempre più specifiche che rispondono alle esigenze dell’economia del sistema-mondo. Secondo la teoria di Bourdieu, i giovani che fanno parte di una classe sociale medio-alta sono incoraggiati dalle famiglie a frequentare il liceo e l’università, che garantiranno loro la possibilità di far parte di un elevato ceto sociale (Ibid). La ragione per cui gli studenti del primo istituto, diversamente dagli studenti incontrati negli altri due, provengono tutti da famiglie benestanti può trovare una sua spiegazione nelle teorie del sociologo francese. È quindi evidente che ancora oggi l’istituzione scolastica riproduce le differenze sociali presenti nel mondo esterno, in questo caso quelle  di classe.

QUESTIONI DI GENERE

Emerge in maniera evidente anche la differenza sulla base del genere, a partire dall’osservazione del comportamento assunto da ragazze e ragazzi durante le attività educative.. Nel corso degli anni Settanta, la pedagogista ed insegnante italiana Elena Gianini Belotti pubblicò il suo  Dalla parte delle bambine, destinato a diventare un testo fondamentale all’interno degli studi sul rapporto tra educazione e genere in Italia. L’autrice mirava a dimostrare, attraverso un’attenta osservazione delle dinamiche che si instaurano tra gli adulti e i bambini durante la prima infanzia, come le differenze di genere non siano assolutamente naturali, ma il prodotto di un agire sociale spesso inconsapevole. I bambini, negli anni che trascorrono alla scuola materna, ricevono differenti tipi di messaggi che influiscono sul loro sviluppo e la formazione del loro carattere. Se atteggiamenti aggressivi e provocatori sono accettati, se non addirittura incoraggiati, nei bambini già nei primi anni d’infanzia,  sono invece repressi nelle bambine. Contrariamente, la capacità di parlare dei propri sentimenti, delle difficoltà e delle proprie debolezze viene incoraggiata esclusivamente nelle bambine.

Negli istituti in cui ho svolto la ricerca, l’atteggiamento dei ragazzi, , risultava effettivamente più esuberante di quello delle loro compagne nelle attività di teambuilding, ma la situazione cambiava radicalmente davanti ad attività che richiedevano capacità di analisi dei propri sentimenti e delle proprie emozioni. Tale difficoltà era  ancora più evidente nelle lezioni svolte in un istituto tecnico. Si trattava di una scuola frequentata prevalentemente da ragazzi, in cui le poche ragazze presenti dichiaravano  di subire spesso molestie da parte dei propri compagni. Svolgere delle attività relative alla parità di genere risultava piuttosto complesso in questo contesto, poiché la maggior parte dei ragazzi non mostrava interesse nei confronti di questioni da cui non si sentono rappresentati. Nella maggior parte delle occasioni i ragazzi rifiutano di accendere telecamera e microfono durante le lezioni online e non intervengono se non interrogati direttamente. Quando alla fine di ogni attività viene chiesto loro cosa pensano dei temi trattati e come si sentono a riguardo, la maggior parte di loro assume un atteggiamento scontroso, rispondendo con frasi come “Cosa ti devo dire?” “Come dovrei sentirmi?”. Parlare di diritti delle donne e della comunità LGBTQIA+ sembra quasi infastidirli e da un questionario anonimo a cui vengono sottoposti a metà del percorso risulta che molti di loro reputano  i laboratori di educazione al genere totalmente inutili. Quando si discute con loro delle discriminazioni razziali o di genere che si verificano quotidianamente nell’istituto, la maggior parte di loro sostiene che si tratti esclusivamente di un modo di scherzare. Un ragazzo di origine cinese a tal proposito afferma di essere stato più volte deriso a scuola per la forma dei suoi occhi e dichiara “quando ero più piccolo ci rimanevo male, però adesso non dico più nulla. È solo uno scherzo”. Risulta quindi che molti di loro reprimono la maggior parte dei propri sentimenti, inclusi il malessere e la rabbia che si possono provare quando si subiscono discriminazioni. Tale episodio dimostra, da un lato, quanto gli individui di sesso maschile siano incoraggiati a non mostrare sentimenti che possano farli risultare fragili agli occhi degli altri, dall’altro lato, una totale mancanza da parte degli istituti scolastici nel sensibilizzare i propri studenti al contrasto alle discriminazioni sociali.

Il filosofo marxista Louis Althusser ha distinto  gli apparati con cui lo Stato mantiene il controllo tra repressivi e ideologici (Dei, 2018, p. 66). Questi ultimi agiscono tramite la costruzione di un consenso sociale, rappresentando come “naturale” l’ordine sociale e permettendone la sua riproduzione. Le varie fasi storiche hanno assistito alla predominanza degli uni o degli altri apparati, giungendo fino ai giorni nostri nei quali, secondo il filosofo, la scuola rappresenta il principale strumento di trasmissione ideologica. Presentandola come un luogo neutro si riesce con maggiore facilità a plasmare le visioni del mondo, tanto delle classi dominanti quanto di quelle subalterne (Althusser, 1964, cit. in Dei, 2018, p. 66). Nel caso di studio appena citato, la discriminazione razziale o quella di genere vengono naturalizzate e legittimate socialmente al punto da indurre gli individui che le subiscono a reputare di non avere ragione di arrabbiarsi o di lamentarsi.

GLI INSEGNANTI

La legittimazione delle differenze sociali si manifestava infatti nei comportamenti, seppur inconsapevoli, dei diversi insegnanti presenti a scuola e in certi casi persino nel comportamento degli operatori dell’associazione che si fa promotrice di un possibile cambiamento. Da alcune testimonianze di studenti e studentesse presenti nei vari istituti risultava che i ragazzi timidi venissero spesso derisi dai propri compagni e addirittura sgridati dagli insegnanti perché la timidezza non è tradizionalmente considerata accettabile per gli uomini e inoltre risulta inadatta per un ambiente che costantemente promuove la competizione e la sopraffazione di alcuni su altri. Il modello educativo proposto è quello della cultura dominante e nessun insegnante ha mai pensato di porlo in discussione, al punto che i ragazzi affermano di aver parlato per la prima volta di sentimenti, emozioni e discriminazioni solo all’interno di tale progetto educativo, ovvero un progetto laboratoriale extra scolastico e non obbligatorio.

Dal confronto avuto con gli insegnanti si riscontra una sostanziale differenza tra le loro buone intenzioni e la reale capacità di metterle in pratica. Gli insegnanti dell’istituto tecnico affermano di essere perfettamente a conoscenza del fatto che le poche studentesse presenti subivano  forme di molestie verbali nei corridoi della scuola e che le opinioni che queste ultime esprimono in classe non vengano considerate dai loro compagni. A tal proposito tutti gli insegnanti affermano di essere terribilmente dispiaciuti, ma nessuno di loro si è mai attivamente impegnato per combattere tale fenomeno. La maggior parte di loro reputa infatti che quello non sia un loro compito, ma delle associazioni esterne che ogni anno propongono attività laboratoriali come quella a cui io stessa stavo partecipando. Gli insegnanti sembrano essere inconsapevoli del fatto che le discriminazioni di genere, di classe e quelle razziali si manifestino attraverso atteggiamenti quotidiani, linguaggi non inclusivi e soprattutto libri di testo che escludono le minoranze dalla storia.

A partire dagli anni Settanta diversi studiosi, negli Stati Uniti e in diversi paesi europei, si sono dedicati ad analizzare il contenuto dei libri al fine di smascherarne gli stereotipi di genere. La maggior parte dei testi presi in considerazione sembra condividere alcuni punti: la supremazia del maschile nel linguaggio, scarsa attenzione alla declinazione femminile all’interno del discorso; racconti di avventure che rafforzano l’immagine degli uomini come eroi, mentre alle donne sono riservati solo ruoli passivi e marginali. Emersero molti riferimenti all’ambito familiare che rappresentavano la madre come succube del marito e dei figli, dedita al lavoro domestico, mentre al contrario i padri risultavano individui pieni di interessi per il mondo esterno, creativi e divertenti agli occhi dei figli, fondamentali per la sopravvivenza della famiglia dal momento che il mantenimento della stessa ricadeva interamente sulle loro spalle (Sartori, 2009, p. 58).

Pensare dunque che sia sufficiente qualche ora di laboratorio all’anno per mettere in discussione il patrimonio culturale razzista e sessista che da secoli la cultura dominante propone significa non essere consapevoli dell’ampiezza del problema di cui stiamo parlando.

Un ulteriore problema che si riscontra nell’atteggiamento degli insegnanti è dovuto alla loro ostinazione nell’attenersi ad un principio di uguaglianza e non di equità quando si relazionano con gli studenti. Per citare un esempio, nelle lezioni svolte in DAD non si tengono in considerazione le difficoltà di quelle studentesse e di quegli studenti che non hanno un computer a loro disposizione o che condividono la stanza con altri fratelli e che per tali ragioni faticano a partecipare attivamente alle attività. Secondo il principio di uguaglianza, tutti gli studenti devono essere valutati secondo gli stessi criteri di giudizio, ragione per cui al termine del ciclo laboratoriale tali studenti riceveranno un voto negativo. Così facendo, come Bourdieu ha più volte sostenuto nei suoi studi sui sistemi scolastici, si riproducono le disuguaglianze presenti nel sistema sociale, non riconoscendo le difficoltà dovute ad una differente distribuzione di beni e di strumenti.

CONCLUSIONI

Che significato ha, quindi, l’educazione alla parità di genere e ai pari diritti in generale? Il principale errore di tale iniziativa è stato quello di inserire un progetto finalizzato a ridiscutere la cultura dominante all’interno di un’istituzione politica che riproduce quella stessa cultura, illudendosi che i principi su cui tale istituzione si fonda non avrebbero influenzato i risultati del progetto. Educare i giovani al genere non vuol dire fornire loro qualche informazione sulla storia dei movimenti femministi o qualche statistica sul numero di femminicidi annuali in Italia: educare al genere significa guidare i giovani in un percorso che permetta loro di decostruire le dinamiche patriarcali nella propria quotidianità. Tale risultato non potrà mai essere raggiunto fino a quando non verranno ripensati e ridiscussi i curricula scolastici, i libri di testo, i linguaggi e gli atteggiamenti promossi da chi vive la scuola quotidianamente.

Un secondo errore è stato quello di affidare tale progetto a un gruppo di volontari spesso non qualificati e non esperti di questioni di genere, i quali in più di un’occasione si sono lasciati andare a battute e commenti che, seppur involontariamente, finivano per rafforzare gli stereotipi di invece di metterli in discussione. Un caso esemplare fu quello di un volontario che in una riunione a cui erano presenti insegnanti ed educatori ironizzò su quanto fosse faticoso per gli studenti maschi dover sopportare così tante ore di attività riguardanti “i problemi delle donne”, sostenendo implicitamente che vivere in un sistema patriarcale e non paritario sia un problema che dovrebbe riguardare solo una parte della popolazione e non l’intera comunità.

In un saggio di appena qualche anno fa, l’antropologo Tim Ingold ha definito  l’antropologia  una scienza aperta, perché il suo obiettivo non è quello di giungere a conclusioni definitive, e critica, perché non si accontenta mai delle cose così come sono (Ingold, 2019, p. 135). È forse questo il contributo più significativo che si richiede agli antropologi nella loro attività professionale e nella loro partecipazione a progetti educativi come quello appena raccontato. L’obiettivo delle attività laboratoriali citate doveva essere quello di recuperare un’idea di educazione come quella descritta da Ingold: generosa, aperta, fondata sul dialogo e la crescita personale, attenta alle necessità di ognuno e finalizzata alla costruzione di un mondo sostenibile (Ibid). Lo scopo degli antropologi e degli educatori, e della collaborazione che può nascere tra loro, deve essere quello di continuare a mettere in dubbio se stessi e l’ambiente circostante al fine di costruire un mondo che garantisca equità, invece di una mera uguaglianza.

 

BIBLIOGRAFIA

Benadusi, M. 2017. Scuola in pratica. Prospettive antropologiche sull’educazione. Firenze. Editpress.

Bourdieu P., Passeron J. C. 1972. La riproduzione. Per una teoria dei sistemi di insegnamento. Rimini. Guaraldi editore.

Bourdieu P. 2009. Il dominio maschile. Milano. Feltrinelli Editore.

Brint S. 1999. Scuola e società. Bologna. Il Mulino.

Callari Galli, M. 1993. Antropologia culturale e processi educativi. Firenze. Scandicci.

Dei, F. (a cura di) 2018. Cultura, scuola, educazione: una prospettiva antropologica. Pisa. Pacini Editore.

Gianini Belotti, E. 2017. Dalla parte delle bambine. Milano. Feltrinelli.

Gobbo, F. (a cura di) 1996. Antropologia dell’educazione. Scuola, cultura, educazione nella società multiculturale. Milano. Edizioni Unicopli.

Ingold, T. 2019. Antropologia come educazione. Bologna. Edizioni La Linea.

Sartori, F. 2009. Differenze e disuguaglianze di genere. Bologna. Il Mulino.

Spindler G. e Spindler L. 2000. Fifty years of anthropology and education 1950- 2000: A Spindler Anthology. Mahwah, New Jersey. Lawrence Erlbaum Associates.

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