Per un’antropologia della decomposizione: i retroscena di un progetto di ricerca. Atto I: L’archivio missionario. Di V.Gamberi
Preambolo
Questo articolo fa parte di una serie di riflessioni scaturite a margine della mia ricerca di post-dottorato, Processual Decay Paradigm, finanziato dalla Palacký University Olomouc attraverso fondi strutturali del Ministero dell’Educazione della Repubblica Ceca e dell’Unione Europea (MSCA-CZ).
Il fine di questi articoli è sia quello di spiegare il dipanarsi di un progetto di ricerca in ambito antropologico e restituirne i risultati al pubblico italiano, sia evidenziarne la sua applicabilità al di fuori dell’ambito strettamente accademico. Che tipo di elementi emersi in questa ricerca possono essere utili per un’antropologia che si sta pensando sempre più professionale?
Come si vedrà nel corso di questi articoli, il concetto di decay o decomposizione, che dà il titolo al mio progetto di ricerca, riflette sia le contraddizioni insite nei processi di patrimonializzazione e della loro salvaguardia, sia il potenziale storico-antropologico che la materia in decomposizione può offrire nel ripensare le collezioni museali e la loro funzionalità. Nel formulare la mia idea di decomposizione, mi sono basata sugli studi maturarti nell’ambito della cultura materiale, dell’antropologia delle tracce materiali e della memoria, così come dell’archeologia contemporanea. In particolare, i concetti di stratigrafia sociale dell’antropologa Shannon Lee Dawdy (2016), di storia anticipatoria (anticipatory history) della geografa Caitlyn De Silvey (2012, 2018) e la riflessione sulle tracce materiali elaborata dall’antropologa Valentina Napolitano (2016) sono stati particolarmente di ispirazione.
Le tracce del passato sono sedimentazione di materiali, memorie e utilizzi diversi a seconda delle epoche storiche che hanno attraversato. Sono in continua trasformazione, contaminate dal presente, strumenti di risonanza e d’evocazione del passato, e per questo perturbanti, così come in evoluzione verso un futuro che si può più o meno modificare a seconda della progettualità politica che ci prefiggiamo. La loro decomposizione, quindi, anziché indicare una minaccia che bisogna prevenire per salvare il passato e la sua memoria, è un processo politico e creativo che ci permette una riflessività costante rispetto al potere trasformativo del passato perdurante e del suo utilizzo presente. La decomposizione può avere anche, nella mia accezione, una compagine metaforica, indicando il perdurare più o meno parziale di un insieme di credenze o la sua trasformazione.
Attraverso il concetto di decomposizione, intendo indagare come le statue delle divinità della religione popolare cinese possano essere state soggette a usi diversi da quello rituale: dal loro collezionismo, all’iconoclastia, alla loro cessione ad altri fedeli o templi, fino al loro abbandono. In particolare, il progetto si basa sulla collezione missionaria del Museo d’Arte Cinese ed Etnografico di Parma, un museo missionario.
Come si vedrà, in particolare in questo articolo, le collezioni dei musei missionari nascono come prove del successo delle attività di conversione ed evangelizzazione, da una parte, e delle capacità interculturali dei missionari, dall’altra, cercando, quindi, una legittimazione sociale del proprio operato. Mi sono quindi occupata di oggetti religiosi che, in modo esplicito o implicito, sono stati collezionati come il risultato di un processo di conversione, divenendo, da oggetti sacri, “idoli” e, successivamente, oggetti etnografici. Come rendere conto di queste trasformazioni, se vogliamo, di queste decomposizioni, e delle circostanze nelle quali si sono verificate? Come, in altre parole, analizzare in controluce l’archivio e farlo parlare a dispetto delle sue lacune e dei suoi silenzi?
Questa serie di articoli intende percorrere le diverse fasi della mia ricerca e le sfide che ho attraversato. In particolare, la ricerca si è composta di: una fase prettamente archivistico-museale, nella quale ho cercato di ricostruire, per quanto possibile, le voci degli oggetti collezionati dai missionari; una fase di ricerca etnografica a Taiwan, nella quale ho cercato di comprendere i processi di desacralizzazione ai quali sono sottoposte le statue delle divinità della religione popolare cinese (un sincretismo tra taoismo, confucianesimo e buddhismo) e buddhista; una fase, infine, di progettazione curatoriale che possa utilizzare le riflessioni maturate nelle prime due fasi per ridiscutere le pratiche museali connesse ai manufatti religiosi cinesi provenienti da un contesto coloniale.
La progettazione curatoriale, in particolare, vuole portare avanti una provocazione e sperimentazione che è stata avviata da altri studiosi e professionisti nell’ambito museale, ovvero sfidare le convenzioni che ruotano attorno all’idea della collezione museale la cui integrità materiale è da preservare. Da un lato, intendo allinearmi all’idea di un museo metabolico (Grünfeld 2022), nel quale si tiene in conto la decomposizione materiale, la transitorietà e l’effimero come elementi importanti per fare riflettere il pubblico sulle contraddizioni delle pratiche di patrimonializzazione e della loro dimensione fortemente egemonica. Dall’altro, intendo sottolineare la ricchezza della decomposizione materiale anche come prospettiva narrativa che permette uno sguardo meno feticista e orientaleggiante dell’Altro: le religioni asiatiche non sono semplicemente spiritualità e precetti rituali ma riflettono le dinamiche e i cambiamenti delle società delle quali fanno parte.
Ogni articolo, nell’illustrare una fase della mia ricerca, associa una problematica concreta che altri professionisti antropologi possono aver incontrato nel loro percorso. Nello specifico, la prima fase è stata caratterizzata dalla difficoltà di accedere all’archivio, la seconda ha invece posto in luce la problematica di ricercare un fenomeno fortemente tabuizzato a Taiwan, mentre la terza affronterà la sfida di rappresentare, a livello museale, tali tabù, riscontrati sia all’interno della società taiwanese che dello stesso museo missionario. Per quanto questa ricerca è molto specifica e di raggio ristretto, spero possa offrire materiale di riflessione per quanti di noi intendono utilizzare l’antropologia e la pratica etnografica come strumento di trasformazione della società nella quale ci troviamo a vivere.
Come cominciò tutto: la schiena di un Buddha
“Non abbiamo molte statue religiose cinesi in legno”, mi disse l’archivista del Museo d’Arte Cinese ed Etnografico dei missionari Saveriani di Parma il giorno in cui lo incontrai per la prima volta, nel luglio 2022, alle prese con la stesura del progetto di ricerca. Il Museo è una delle più grandi collezioni missionarie cattoliche di manufatti cinesi in Italia ed è stato inaugurato nel 1901 per istruire i missionari Saveriani sulla cultura cinese e allo stesso tempo attrarre benefattori.
Prima di visitare il museo, mi è stato chiesto di selezionare gli oggetti della collezione di mio interesse per progettare il progetto di ricerca che mi ha accompagnato fino a ora. Due statue in legno, una raffigurante Buddha e l’altra il dio Imperatore di Giada (almeno, secondo la scheda di catalogo) ci aspettavano, adagiate sulla scrivania della biblioteca del museo. La statua di Buddha attirò la mia attenzione. Presentava una cavità sulla schiena che mi ha ricordato le discussioni che ebbi modo di avere con un sacerdote taoista e diversi direttori di templi a Taiwan tra il 2019 e il 2020. Il retro di una statua religiosa cinese è infatti il punto in cui viene introdotta la materia sacra durante la sua cerimonia di consacrazione. È il retro delle statue che i fedeli raschiano segretamente per fabbricare amuleti protettivi sfruttando il potere sacrale delle “interiora” della statua, ed è svuotandolo che la statua viene sconsacrata insieme ad altre pratiche rituali di desacralizzazione, come svuotare il braciere d’incenso a essa collegata, indispensabile canale di comunicazione tra i fedeli e le divinità.
La rivista della congregazione Fede e Civiltà, sorta come bollettino informativo e conoscitivo della missione saveriana in Cina per un pubblico laico, abbonda di resoconti di atti di desacralizzazione della statuaria religiosa come passaggio necessario nel processo di conversione religiosa e come porta d’accesso conoscitiva per il pubblico italiano rispetto alla religione cinese. Le statue delle divinità furono, infatti, oggetto di scandaglio da parte dei missionari, intenzionati a comprendere come fosse possibile che le popolazioni locali attribuissero una loro animazione, di qui l’esame delle loro “interiora sacre”, le inchieste tra i diversi templi intorno alla missione e la loro documentazione fotografica. In un articolo del missionario Disma Guareschi, quest’ultimo, nel raccontare di come un’intera comunità si fosse convertita e avesse ceduto le proprie statue per ricevere il battesimo, concluse menzionando che aveva scattato delle foto (una di queste coincide con l’immagine di accompagnamento di questo articolo) per “mostrarle al museo in Italia.”
La ricostruzione di queste vicende e della “biografia” (Kopytoff 1987) delle statue che sono tutt’ora presenti nella collezione del museo è stata estremamente travagliata, mettendomi di fronte alla necessità di ripensare a una metodologia di ricerca che finora non ha mai adeguatamente affrontato l’analisi della decomposizione dell’archivio. Quello che segue, lungi da essere un “documento programmatico”, intende far riflettere quanti di noi si trovano a dover interloquire con istituzioni complesse, stratificate e burocratizzate quali sono le congregazioni religiose.
Accedere all’archivio: frammenti e lacune
I musei missionari sono una presenza difficilmente trascurabile nel panorama italiano, con almeno tredici presenze attestate a livello regionale (AA.VV. 2007). Tuttavia, faticano a entrare nel dibattito post-coloniale come luoghi da decostruire e problematizzare (Baldriga 2024). L’idea che questi musei, insieme ad altre pratiche missionarie, abbiano servito scopi diversi da quelli secolari e quindi non siano indagabili dall’occhio analitico dell’antropologo o dello storico se non con una decostruzione ermeneutica radicale (Beltramini 2023), fa sì che l’accesso e il dialogo con queste realtà sia spesso estremamente delicato. Le istituzioni ecclesiastiche, se sono da un lato interessate a essere indagate e fruibili da un pubblico esterno in un contesto di rinnovata importanza data al patrimonio culturale religioso (Isnart e Cerezales 2020), dall’altro vivono la presenza di uno studioso laico come una potenziale fonte di banalizzazione o incomprensione della loro missione sacrale data dall’implicita richiesta di decolonizzare il lascito delle generazioni missionarie precedenti.
L’accesso all’archivio risulta, quindi, il risultato di un delicato processo di instaurazione di reciproca fiducia tra l’ente religioso e l’antropologo o lo storico. Nell’ambito dell’antropologia italiana, Berardino Palumbo (2006) ha descritto l’accesso all’archivio come parte di una più ampia strategia dell’antropologo sul campo. Entrare o meno in un archivio coincide con l’essere o meno parte di una rete di rapporti di interdipendenza e di potere, l’essere schierati da una parte o dall’altra delle compagini in competizione nel panorama della memoria e del patrimonio culturale o, come nel caso di Palumbo, il prenderne opportunisticamente le distanze e coltivare un’ambiguità di fondo per non precludere le vie possibili di accesso all’archivio o il tipo di informazioni da esaminare.
Nel contesto della mia ricerca, più che di mia consapevole strategia di accesso all’archivio, si è trattato di un tentativo, spesso percepito da me come impacciato e maldestro (von Oswald e Tinius 2022), di coabitazione tra le mie istanze di studiosa e la discrezionalità istituzionale, comunque da rispettare nel segno di un dialogo reciproco. Il mio lavoro, quindi, si inserisce nel solco di un dibattito già iniziato negli ultimi decenni sull’etnografia degli archivi. Questi ultimi sono anch’essi in decomposizione (Ladwig, Roque, Tappe, Kohl, Bastos 2012), vuoi perché le loro componenti materiali sono spesso scisse, frammentate in più località e sottoposte a deteriorazione materiale, vuoi perché una ricostruzione di un determinato avvenimento risulta incompleto, lacunoso o con possibili scenari ipotetici che bisogna individuare in controluce (Ginzburg 1989, Stoler 2009).
Interrogando i frammenti e le decomposizioni dell’archivio, tuttavia, si può pervenire ad alcune considerazioni, come il ruolo della cultura materiale nel creare legami istituzionali, diplomatici e interculturali che, sebbene comunque controversi e da porre in un contesto coloniale nel quale non si era ancora pervenuti alla Controversia dei Riti (Criveller 2024) e, quindi, a una maggior accettazione della sensibilità religiosa cinese da parte del clero, ci restituiscono un quadro complesso delle interazioni tra i missionari e le popolazioni locali.
Metodologia della decomposizione
Nell’intraprendere questo percorso a metà strada tra storiografia ed etnografia, mi sono trovata di fronte a due limiti oggettivi. Il primo è stato dato dal fatto che l’archivio missionario ha subito più di una suddivisione e ridistribuzione del suo materiale tra l’Istituto e il museo, seguendo logiche interne alla congregazione religiosa e pre-esistenti a qualsiasi norma di catalogazione, inserita poi in un momento successivo, in coincidenza con l’attuale allestimento permanente nel 2012. Per quanto i diversi cataloghi (Toscano 1965; Iurman 2012) citino quaderni appartenuti ai missionari con una serie di liste di oggetti portati in Italia, il loro accesso è complesso persino per gli addetti del museo, richiedendo quindi una progettualità di lungo periodo di risistemazione del materiale in modo consultabile.
Il secondo è dato dal fatto che, almeno stando ai racconti orali che mi sono stati forniti dai missionari e dai laici che sono in carico dell’apparato archivistico del museo e dell’Istituto, i missionari non avevano a loro volta raccolto delle testimonianze orali relative agli oggetti da loro collezionati e la stessa collezione ha subito dei drastici cambiamenti, dati dalla sua estrema porosità e circolarità. Se da un lato questo è un dato indicativo rispetto al ruolo giocato dalla cultura materiale nel manifesto programmatico dell’Istituto, come si vedrà successivamente, dall’altro non permette un raffronto puntuale tra le diverse versioni di cataloghi e schede di inventariazione che si sono stratificate nel tempo.
Nell’ottica di una storia delle tracce e dei frammenti (Ginzburg 1989), ho quindi cercato di ricostruire parzialmente le intenzioni e la progettualità dei missionari rispetto al loro museo e le ricadute nel presente delle pratiche missionarie. Questa metodologia della decomposizione ha comportato, da un lato, a una lettura sistematica della produzione letteraria dei missionari che operarono nell’arco dell’esistenza della missione, dai primi del Novecento fino all’avvento della Rivoluzione Culturale Cinese a partire dal 1948, che coincise con l’espulsione di tutti gli ordini religiosi dalla Cina. Sebbene queste pubblicazioni siano nella maggior parte dei casi romanzi e rappresentazioni teatrali più che documenti storici, è visibile in controluce la progettualità sociale, culturale e religiosa dei missionari. Dall’altro, ho cercato di comprendere maggiormente le decomposizioni dell’archivio e le tracce dei primi missionari attraverso una serie di conversazioni più o meno informali con i missionari in gestione degli archivi (pratica adottata anche in von Oswald 2022), così come di osservazione delle pratiche religiose saveriane osservabili tutt’ora nel contesto taiwanese. Lungi dall’essere una ricostruzione astorica, il mio integrare l’archivio con l’etnografia ha il ruolo di indagare le risonanze del passato nel presente dell’Istituto.
Il Museo d’arte cinese ed etnografico: breve excursus del suo archivio
Il Museo d’arte cinese ed etnografico ha una storia stratificata. La sua funzionalità all’interno della congregazione religiosa saveriana è stata sviluppata nell’arco di cinque anni dal suo fondatore, Guido Maria Conforti (1865-1931), a partire dal 1895, anno della fondazione dell’Istituto Saveriano a Parma, fino all’inaugurazione del museo nel 1901. Nel Regolamento della Congregazione redatto nel 1898 e nelle sue successive versioni del 1899, 1921 e 1931, Conforti si pose l’obiettivo di istruire i missionari sulla cultura cinese e attrarre sostenitori della missione e dell’Istituto tra i laici. L’attività di collezionismo si accompagnava all’istruzione dei missionari in ambito etnografico, facendo loro seguire il corso tenuto a Lovanio da padre Schmidt.
È precisamente l’accento posto sulle attività museali, etnografiche e interlinguistiche dei missionari che Conforti e altre figure chiave dell’Istituto, in particolare padre Bonardi, a sua volta divenuto direttore del museo e della rivista Fede e Civiltà, menzionarono più volte nelle pubblicazioni presenti in archivio per legittimare la figura del missionario in opposizione all’amministratore coloniale. Non si trattava di assoggettare i popoli non cristiani ma, bensì, di creare le condizioni perché questi ultimi potessero comprendere all’interno del loro sistema culturale di avere tracce di rivelazione cristiana che potessero coltivare in armonia con i propri tratti culturali (Bonardi 1920). Parte di questo processo di autorivelazione dei “popoli delle missioni” era anche la metamorfosi dei missionari, il loro “incinesarsi” per apprezzare la ricchezza culturale cinese, il suo significato e potenzialità cristiane.
Nelle numerose pubblicazioni lasciate dai missionari dell’epoca e fruibili in archivio, spesso in veste di romanzi o di commedie teatrali, il ruolo della materialità cattolica e delle differenze con quella della religione cinese è cruciale nel permettere un percorso di cambiamento da parte della popolazione cinese che è prima di tutto descritto come corporeo ed esistenziale, interagendo con la sfera delle emozioni e della gestualità dei futuri convertiti.
Sebbene questa operazione, definita da Bonardi stesso come “strategia missionaria”, abbia naturalmente dei bias etnocentrici e cristianocentrici, così come non si può determinare quanto fosse effettivamente efficace e documentabile come tale a livello storico, è indubbiamente parte di un’etnografia pre-Malinowski (Delgado Rosa e Vermeulen 2022), nella quale pratiche come l’incorporazione erano portate avanti al di fuori della cornice concettuale dell’osservazione partecipante.
Per la brevità di questo articolo, non mi addentrerò in una dettagliata ricostruzione dei diversi apporti dei missionari alla collezione museale e alla sua frammentazione in più sedi e categorie collezionistiche, quali “etnografica”, “artistica” e “memorialistica.” Quello che mi interessa sottolineare dell’archivio museale è come la sua decomposizione, porosità e frammentazione siano indicative di un’idea degli oggetti come veicoli che potessero attuare il reciproco processo di incorporazione della “cattolicità” da parte dei cinesi, da un lato, e della “cinesità” da parte dei missionari e del pubblico italiano, dall’altro.
L’idea di una materialità che fosse strumento di trasformazione è visibile nel modo in cui le collezioni venivano e vengono utilizzate in parte tutt’ora. All’inizio, molte collezioni erano parte organica della vita seminariale: i manufatti cinesi vivevano in osmosi con le stanze dei missionari, erano parte del loro arredamento, venivano fruite nella quotidianità della vita seminariale e interagivano con altri oggetti considerati centrali per la vita dell’Istituto, dalle reliquie dei martiri caduti in Cina alle donazioni e all’arte religiosa cattolica collegata alla persona di Conforti.
L’estrema porosità, malleabilità e ricorsività della collezione è evidente anche nel modo in cui gli oggetti della collezione circolavano nella rete diplomatica e sociale dei missionari saveriani. I reperti furono acquistati da cittadini di Parma, donati a benefattori, prestati a visitatori e curatori di altri musei o spediti a fiere o esposizioni missionarie internazionali. Allo stesso tempo, i visitatori del museo o i benefattori hanno contribuito donando oggetti alla collezione del museo all’interno di una serie di reti informali.
La porosità della collezione si è estesa ben oltre la rete di donatori e amici per investire in altre reti di scambio. In particolare, uno dei missionari con cui ho parlato durante la mia ricerca d’archivio ha confermato la mia impressione che la collezione fosse utilizzata per creare scenografie per spettacoli teatrali missionari. Il materiale è stato anche prestato alle scuole elementari salesiane di Parma.
Alcuni oggetti furono spediti avanti e indietro tra Italia e Cina, acquisendo una doppia vita come parte del seminario italiano e della missione cinese. Ad esempio, un dipinto della Madonna della Strada (adorata dai santi Saverio e Ignazio), realizzato da Ulisse Passani (1848-1933) e donato a Conforti, fu spedito in Cina per sostenere moralmente i missionari (Ferro 2019: 24). Il suo arrivo alla missione è attestato da una lettera al Vicario Apostolico di Zhengzhou, Calza, datata 28 novembre 1924. Ora, il dipinto è sull’altare del santuario principale nella Casa Madre.
Il museo continua a giocare un ruolo all’interno dell’educazione dei seminaristi che si accingeranno poi a intraprendere un percorso da missionari. Mentre fruivo le diverse sedi archivistiche del museo e dell’Istituto, ho avuto modo di conoscere un giovane seminarista in procinto di terminare gli studi con la discussione della tesi nel corso dei mesi del mio soggiorno a Parma. Stando a quanto mi ha raccontato, i seminaristi tutt’ora sono tenuti a visitare sia il museo che la raccolta di memorie relative alla missione e a Conforti all’interno dell’Istituto, ed è attraverso questo processo di interazione con le collezioni che possono comprendere ulteriormente la teologia e l’idea di missione della loro confraternita.
Conclusioni
La collezione di statuaria cinese evidentemente desacralizzata all’interno del Museo d’Arte Cinese ed Etnografico pone una serie di interrogativi. Nella mia disamina dell’archivio missionario, per quanto si possa evincere l’utilizzo di una metodologia in linea con l’etnografia del tempo e improntata a un’interazione stretta con la popolazione locale, oltre che un tentativo di apprezzare determinati elementi della cultura cinese, le voci cinesi non emergono, persino adottando una metodologia della decomposizione, attenta alla processualità e alle presenze implicite nell’archivio. Parte di questa assenza potrà essere probabilmente colmata da studi successivi incentrati sugli archivi presenti in Cina secondo un’ottica di lungo corso che è già stata intrapresa da altri studiosi internazionali (Harrison 2013).
In seconda battuta, vista la manipolazione alla quale la statuaria è stata soggetta nel corso del tempo e lungo la rete di interscambi tra l’Istituto e altri interlocutori, si può anche mettere in dubbio il fatto che tale desacralizzazione sia necessariamente avvenuta nella fase di raccolta delle collezioni, rendendo plausibile il fatto che i missionari abbiano “aperto le interiora” delle statue in un secondo momento ai fini della loro documentazione.
Le due limitazioni legate alla ricostruzione storica, tuttavia, pongono in luce la possibilità creativa di queste tracce nel presente: come poter attivare una riflessione su queste decomposizioni e desacralizzazioni che possa anche porre una serie di ripensamenti sul modo in cui queste collezioni si sono formate e sono state usufruite finora? Gli atti successivi di questo percorso che ho condiviso in questa sede ripartiranno da questa domanda.
Ringraziamenti
Si ringrazia la disponibilità del Museo d’Arte Cinese ed Etnografico e l’Istituto Saveriano per avermi accolta e assistita nel corso della ricerca d’archivio.
Bibliografia
AA.VV. 2007. Musei Missionari. Verona. EMI.
Baldriga, Irene. 15 settembre 2024. Dibattito. Decolonizzare i musei, il contributo della Chiesa. Avvenire. https://www.avvenire.it/agora/pagine/decolonizzare-i-musei-il-contributo-della-chiesa
Beltramini, E. 2023. Desecularizing the Christian Past: Beyond R.A. Markus and the Religious-Secular Divide. Amsterdam. Amsterdam University Press.
Bonardi, G. 1921. Nel campo delle missioni. Parma. Istituto per le Missioni Estere.
Criveller, G. 2014. Il cattolicesimo nella Grande Cina. Sinosfere 20: 63-81. https://sinosfere.com/2024/01/19/gianni-criveller-il-cattolicesimo-nella-grande cina/#:~:text=La%20controversia%20dei%20Riti%20(1625,e%20politica%20religiosa%20in%20Cina.
Dawdy, S. 2016. Patina: A Profane Archaeology. Chicago, IL. University of Chicago Press.
Delgado Rosa, F. and Han F. Vermeulen. (a cura di). 2022. Ethnographers Before Malinowski: Pioneers of Anthropological Fieldwork, 1870-1922. Oxford. Berghahn.
DeSilvey, C. 2006. Observed Decay: Telling Stories with Mutable Things. Journal of Material Culture 11(3): 318–338.
DeSilvey, C. 2012. Making Sense of Transcience: An Anticipated History. Cultural Geographies, 19(1): 31–54.
DeSilvey, C. 2017. Curated Decay: Heritage Beyond Saving. Minneapolis, MN. University of Minnesota Press.
Ginzburg, Carlo. 1989. Clues, Myths, and the Historical Method. Baltimore. Hopkins University Press.
Grünfeld, Martin. 2022. «Culturing Impermanence at the Museum: The Metabolic Collection», in Impermanence: Exploring Continuous Change Across Cultures, Haidy G., Ton O., Warner C. D. (a cura di). London. UCL Press: 272–291.
Harrison, H. 2013. The Missionary’s Curse and Other Tales from a Chinese Catholic Village. Berkeley, CA. University of California Press.
Isnart, C., Cerezales, N. (a cura di). 2020. The Religious Heritage Complex Legacy, Conservation, and Christianity. Londra. Bloomsbury.
Iurman, E. 2016. Cose di Cina quotidiana (1900-1950). Parma. Edizioni del Museo d’Arte Cinese ed Etnografico.
Kopytoff, I. 1987. «The cultural biography of things: commoditization as process». In The Social Life of Things, Appadurai, A. (a cura di). Cambridge. Cambridge University Press: 64-91.
Ladwig, P., Roque, R., Tappe, O., Kohl, C., Bastos, C. 2012. Fieldwork Between Folders: fragments, traces, and the ruins of colonial archives. Max Planck Institute for Social Anthropology Working Papers, 141: 1-27. https://www.eth.mpg.de/cms/de/publications/working_papers/wp0141
Napolitano, Valentina. 2015. Anthropology and Traces. Anthropological Theory, 15(1): 47–67.
Palumbo, B. 2006. L’UNESCO e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale. Roma. Meltemi.
Stoler, A.L. 2009. Along the Archival Grain. Epistemic anxieties and colonial common sense. Princeton University Press.
Toscano, G. M. 1965. Museo d’arte cinese di Parma. Parma. Istituto Saveriano Missioni Estere.
Von Oswald, Margareta. 2022. Working through the Colonial Collections: an Ethnography of the Ethnological Museum in Berlin. Lovanio. Leuven University Press.
Von Oswald, Margareta e Jonas Tinius. (a cura di). 2022. Awkward Archives. Ethnographic Drafts for a Modular Curriculum. Berlino. Archive Books.